“Infatti,
l’amore di Cristo ci spinge” (cfr 2 Cor 5, 14-20).
“Ieri sera sono andata a cena fuori con un’amica
di mia mamma. Ho ordinato come contorno
un piatto di piselli, per poi mangiarmi il dolce che mi piaceva di più. Ma mamma ha detto di no. Stavo per tirare fuori il broncio, ma mi sono ricordata
che Gesù era proprio accanto a mamma e così mi sono messa a sorridere”. “Oggi, dopo una giornata
faticosa, sono tornato a casa. Mentre guardavo la TV, mio fratello
mi ha preso il telecomando dalle mani. Mi sono arrabbiato molto, ma poi mi sono calmato e ho lasciato che vedesse la televisione”. “Oggi mio padre mi ha detto una cosa ed io gli ho risposto
male. L’ho guardato ed ho visto che non era felice. Allora
gli
ho chiesto scusa e lui mi ha perdonato”.
Sono esperienze sulla Parola di vita raccontate da bambini di quinta elementare di una scuola di Roma. Forse non vi è un legame immediato tra tali esperienze e la Parola che vivevano
in quel momento,
ma è proprio questo il frutto del Vangelo vissuto: lo sprone ad amare.
Qualsiasi Parola ci proponiamo di
vivere, gli effetti sono sempre gli stessi:
essa ci cambia la vita, ci mette in cuore la spinta ad essere attenti ai bisogni dell’altro, fa sì che ci poniamo a servizio
dei fratelli e delle sorelle.
Non può essere diversamente: accogliere e vivere
la Parola fa nascere
in noi Gesù e ci porta ad agire come lui. È ciò che lascia intendere
Paolo quando scrive qui ai Corinti.
Ciò che spingeva
l’apostolo ad annunciare il Vangelo e ad adoperarsi per l’unità delle sue comunità, era la profonda
esperienza che aveva fatto di Gesù. Si era da lui sentito
amato, salvato; era penetrato nella sua vita al punto che niente e nessuno avrebbe mai potuto separarlo
da lui: non era più Paolo a vivere,
perché Gesù viveva in lui. Il pensiero che il Signore l’avesse amato al punto da dare la vita lo faceva impazzire, non gli dava pace e lo spingeva con forza irresistibile a fare altrettanto con altrettanto amore.
L’amore
di Cristo spinge
anche noi con la medesima
veemenza?
Se davvero abbiamo sperimentato il suo amore, non possiamo non amare a nostra volta ed entrare,
con coraggio, là dove c’è divisione, conflitto, odio, per portarvi concordia, pace, unità. L’amore ci permette di gettare
il cuore al di là dell’ostacolo, per giungere a un contatto diretto con le persone, nella comprensione, nella condivisione, per
cercare insieme la soluzione. Non si tratta
di un’azione opzionale. L’unità va perseguita ad ogni costo,
senza lasciarci bloccare da false prudenze,
da difficoltà o possibili scontri.
Ciò appare
urgente soprattutto nel campo ecumenico. Questa parola è stata scelta in questo mese, nel quale si celebra la Settimana di preghiera
per l’unità, proprio per essere vissuta insieme dai cristiani delle diverse Chiese e comunità,
perché ci si senta tutti spinti, dall’amore di Cristo,
ad andare gli uni verso gli altri,
così da ricomporre l’unità.
«Sarà autentico
cristiano della riconciliazione – affermava
Chiara Lubich all’apertura della IIª Assemblea
Ecumenica Europea a Graz, Austria,
il 23 giugno 1997 – solo chi sa amare gli altri con
la carità stessa di
Dio, quella carità che fa vedere Cristo in ognuno,
che è destinata
a tutti – Gesù è morto per tutto il genere umano –, che prende sempre l’iniziativa, che ama per prima; quella carità che fa amare ognuno come sé, che ci fa uno con i fratelli e le sorelle: nei dolori e
nelle gioie. E occorre che anche le Chiese amino con questo amore».
Viviamo
anche noi la radicalità dell’amore con la semplicità e la serietà
dei bambini della scuola di Roma.
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