Paolo Giordano, quello della solitudine dei numeri
primi, ha passato tre giorni sul Monte Athos. Il racconto che ne ha fatto - su "La Lettura" di domenica scorsa - è
quello del grande scrittore: “La comparsa del primo monastero lungo la rotta,
Dochariou, è sorprendente: una fortezza di pietra incastonata in un’insenatura,
davanti il mate aperto e alle spalle bosco intatto…”.
Al termine del viaggio ricorda le parole del pellegrino
russo: “Se incontravo qualcuno, non avevo più voglia di parlare, desideravo
soltanto stare in solitudine e recitare la preghiera”. “È una condizione auspicabile?
– si domanda Paolo Giordano disgustato da monaci scostanti e chiusi su se
stessi, ostili agli odiati cattolici – Rinunciare a ogni carattere distintivo,
all’espressività e alla gestualità, nascondere il proprio corpo sotto vesti
nere e non esporlo mai alla luce, non vedere per anni il volto di una donna né
il luogo dove si è cresciuti, essere in comunione con un altro essere umano
solo nel canto, ma in un canto che pare intonato da un coro di spettri, amare
la preghiera al posto delle persone… Rivedo gli occhi vuoti del Guardiano del
Cancello, replicati in tutti i monaci anziani che ho incontrato al Monte. Forse
credo davvero nell’efficacia della preghiera interiore, ma se è ciò che
produce, meglio tenerla a ogni costo alla larga da me”.
Mai confondere la preghiera con le preghiere, fosse
pure quelle dei monaci del Monte Athos.
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