Annunciare la parola è
un’arte. Lo attesta il parlare di Gesù che sfocia sempre in poesia. L’annuncio
della parola diventa spesso un canto. La parola si visualizza nell’immagine e
si materializza nell’architettura. È il cammino dell’incarnazione: il Dio invisibile si rende visibile nel volto di
Cristo, eikôn, “icona-immagine”
divina perfetta (cf. Col 1, 5).
Teodoro
Studita, nel IX secolo, non esitava ad affermare che «se l’arte non potesse
rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato».
L’evangelizzazione non
può fare a meno dell’arte. Nel messaggio che Paolo VI consegnò agli artisti in
Piazza San Pietro l’8 dicembre 1965 alla chiusura del Concilio, si legge: «Il
mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione.
La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è
il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e
le congiunge nell’ammirazione». Il 7 maggio 1964 li aveva convocati nella
Cappella Sistina e aveva lanciato loro la grande sfida: «carpire dal cielo
dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di
accessibilità».
Potremmo ripetere anche
oggi l’appello che nell’VIII secolo Giovanni Damasceno rivolgeva ai cristiani di
allora: «Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede!”, tu portalo in
chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei
sacri quadri».
Ho visitato gli atelier d’arte delle Suore
Discepole del Divin Maestro. Sono nate perché la liturgia sia sempre più bella.
Le ho incontrate la prima volta in occasione dell’alluvione a Firenze, nel
1966, quando andai a liberare dal fango il loro negozio. Nel 1969 venni a
visitare gli atelier qui a Roma, come oggi: icone, ceramica, vetri istoriati,
mosaico… Nella nostra cappellina del noviziato a Marino il ricordo di quei
giorni, il piccolo gioiello dell’Immacolata, un autentica miniatura.
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