Roma, fine autunno 1950. Chiara Lubich incontra i suoi compagni, ad uno ad uno, in rapporti personali informali semplici e profondi. A mano a mano che la relazione si approfondisce si staglia la personalità di ciascuno. I colloqui e la comunione sono così intensi, la comunione così sincera, che è facile prendere coscienza delle proprie eccentricità, dei lati spigolosi del carattere, di pretese superiorità, che lentamente cedono il posto alla realtà più profonda di ognuno, a ciò che costituisce la parte migliore di sé. La persona è liberata dalle scorie e si staglia in tutta la sua autenticità. In una pagina di diario, il 28 ottobre di quell’anno, Chiara costata che i suoi compagni, grazie all’aiuto reciproco nella verità, sono come “rinati alla vita”, capaci di manifestare il proprio “uomo nuovo”, la vera identità, il proprio – ed ecco una parola di particolare interesse – “disegno”, ossia una vocazione, una missione da esercitare all’interno del Movimento nascente, senza tuttavia limitarsi ad esso, perché ogni “disegno” ha la vastità degli orizzonti di Dio.
Non ci si inventa una missione,
la si scopre, è già inscritta nel proprio essere dal momento in cui Dio ci ha
pensato, amato, “sognato”, quasi una “Parola” da lui pronunciata che ci
costituisce nella nostra identità: siamo una “missione”. Per prenderne piena
consapevolezza occorre che le molte vocazioni entrino in comunione tra di loro,
così da riconoscersi uguali, scoprendo la medesima origine, la stessa dignità,
e insieme riconoscersi diversissime. Soltanto così ognuno può essere se stesso
e contribuire, con la sua peculiarità, al grande disegno di Dio sulla creazione.
Anche Chiara, come leggiamo in
quella pagina di diario, ha bisogno dell’altro (parla del “Cielo”, della
“Parola” dell’altro, della sua realtà più profonda), per comprendere appieno se
stessa. Riferendosi in particolare al rapporto con uno dei suoi compagni,
Antonio Petrilli, scrive: «Nel suo Cielo dunque tinsi la mia anima e la mia
vocazione della sua Parola».
In quell’occasione narrata nel
diario dell’ottobre 1950 ella aveva davanti a sé poche persone con nomi
concreti: Graziella De Luca, Pasquale Foresi, Giosi Guella, Natalia Dallapiccola,
Igino Giordani… Alcuni giorni più tardi, l’8 novembre, comprende che
quell’esperienza non riguarda soltanto i compagni e compagne di quel momento, riguarda
tutti, ogni persona. Ogni persona è unica, irrepetibile, insostituibile,
necessaria per il compimento del progetto di Dio sul mondo, chiamata a sprigionare
la propria “virtù
speciale”, la propria “forza”, la “caratteristica” peculiare, nella piena
realizzazione di sé.
8
novembre 1950
Oggi
compresi che ognuno di noi è insostituibile nel nostro posto. Fummo chiamati da
Dio ad essere Lui, non ad essere semplici focolarini: ad essere quindi Parole
di vita vive. E la chiamata di Dio Padre è irrevocabile come il Figlio. Siamo
necessari a Dio di necessità d'amore. Noi crediamo all'amore di Dio a tal punto
da credere che Egli ha bisogno di noi per il suo disegno d'amore.
Chi
ama ha bisogno dell'amato, tanto quanto ama, perché amare non è solo
"amore puro" nel senso ordinario della parola. (L'amore puro [cioè
disinteressato] è
la scala per arrivare all'amore ...). Amare significa esser Dio che ama Dio ed
è riamato da Dio producendo lo Spirito Santo in mezzo come Terza Persona.
Iddio
dunque ci ha chiamati a rivestire una Parola di Dio, la quale, perché amore, è
compiuta, ma anche ha bisogno dell'altra Parola per originare una nuova
bellezza di amore. Ognuno ha dunque il Regno di Dio in sé al patto però che lo
perda ogni attimo nel fratello, perché l'amore è fatto così che ha ciò che
perde.
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