Ne
stiamo uscendo fuori, lentamente ma decisamente. La pandemia ha tuttavia
tarpato le ali al sogno e alla speranza e lascia una patina di grigio nei
nostri rapporti, quasi avesse sparso cenere sul fuoco. Il fuoco sotto la cenere
c’è ancora. Aspetta di essere attizzato con energia per ardere di nuovo.
“Ardore”: una parola desueta, che conserva un velo romantico. Sono più attuali
i suoi contrari: freddezza, indifferenza, inerzia… Un termine che non è un “contrario”
dal punto di vista lessicale, ma che mi pare gli sia comunque antitetico e che
caratterizzi tanti aspetti del nostro vivere, è “smorto”. Non morto. Smorto,
che vive a metà. Quel famoso “né caldo né freddo” che disgusta fino al vomito
il Vivente dell’Apocalisse (3, 15-16). Venuto a gettare fuoco sulla terra, Gesù
vorrebbe vederlo ardere, e si riferisce al dono di sé sulla croce (cf. Gv 14,
49): proprio nel momento in cui egli sembra spegnersi perché muore (niente a
che fare con “smorto”!), sprigiona tutta la vita. Gli fa eco uno dei grandi
costruttori dell’Europa medievale, san Colombano, che esclama: «Volesse il
cielo che il Signore si degnasse di scuotere anche me dal sonno della mia
mediocrità e accendermi talmente della sua divina carità da farmi divampare del
suo amore sin sopra le stelle, sicché ardessi dal desiderio di amarlo sempre
più, né mai più in me questo fuoco si estinguesse!»
Passati attraverso l’illanguidimento della pandemia avremo il coraggio e la forza di rinascere e di sprigionare il fuoco che pure abbiamo dentro? Basterà disarmarci, lasciare che brucino le sovrastrutture che ci siamo costruiti per difendere la nostra individualità, lasciare che arda la fiamma del primo amore, che gli ideali tornino a splendere nella verità e semplicità, credere che il fuoco può divampare e accendere altri, per giungere a rapporti informati soltanto dal desiderio di vedere l’altro crescere per un’esistenza di pace.
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