Perché
nella festa di Tutti i Santi la liturgia ha scelto di leggere il vangelo delle
beatitudini?
Forse
per indicare che la santità è un dono.
Essa
– espressa come regno dei cieli, consolazione, sazietà, visione di Dio – è donata
a persone che sono nella penuria, nella sofferenza, nell’ingiustizia, nella
persecuzione; che non sono violente e che non hanno pretese; che non vanno alla
conquista con presunzione; persone miti, povere, pure di cuore…
Nel
giorno della commemorazione dei defunti il volto dei beati acquista il volto mite
del mio babbo.
Mite
perché sapeva stare al gioco di noi piccolini che ogni sera ci nascondevamo
sotto la tavola al suo rientro a casa dal lavoro. Ci piaceva sentirlo allarmato
dalla nostra scomparsa, forse mangiati dal lupo, e ci piaceva soprattutto
saltargli alle gambe per farci sentire vivi e gioire della sua gioia
nell’averci ritrovati.
Mite
perché ha affrontato le traversie della vita senza mai un lamento, anzi con
fede profonda e senso di gratitudine. La prima grande prova, che rimane nella memoria
della nostra famiglia come un evento epico, sono state quelle interminabili ore
in mare a seguito dell’affondamento della nave su cui viaggiava.
Mite
nel modo con cui ha saputo affrontare la prova estrema, quella della morte,
come mite agnello, senza un lamento.
Una
mitezza evangelica la sua, che non aveva il sapore né della rassegnazione né
della codardia, e che non lo ha esonerato dall’impegno civile, politico ed
ecclesiale.
“Fatti
e non parole” potrebbe essere il suo motto.
Beati,
beati, beati…
Solo
i piccoli sono grandi.
Solo
gli ultimi sono i primi.
Solo
i peccatori sono santi.
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