Venuta una vedova povera,
vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi
discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha
gettato nel tesoro più di tutti gli altri... vi ha gettato tutto quello che
aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12, 38-44).
Una vita tutta donata a Dio.
La vedova al tempio ne è diventata un simbolo. Ha donato «tutta la sua vita»,
come scrive Marco nell’originale greco, quello che è tradotto con «tutto
quanto aveva per vivere».
Una vedova: non ha più
statuto giuridico né chi la sostiene economicamente. Per questo in alcune
culture le vedove sceglieva (e scelgono) di bruciare sulla pira di fuoco
assieme al marito defunto; meglio morire che rimanere sola.
È l’ultima pagina del
Vangelo di Marco che ascoltiamo prima dell’annuncio della fine dei tempi e
della conclusione dell’anno liturgico, quasi a indicarci l’atto più importante
da compiere, indispensabile per accogliere la venuta del Signore nella gloria:
la consegna totale della nostra vita. Siamo usciti dalle sue mani, siamo suoi,
a lui dobbiamo tornare. La vita è un suo dono, a lui la rendiamo, con piena
consapevolezza, nella gioia.
«Sei tu, Signore, l’unico
mio bene» vorremmo dirgli, con sincerità, ripetendo le parole del Salmo. È l’Unico
bene che vogliamo possedere, non ci sono quindi altri beni che possiamo tenere
per noi.
Seduto nel cortile del
tempio, davanti alle tredici cassette per le offerte, Gesù guardava i molti
ricchi che donavano il loro superfluo. Donavano tanto, ma non era tutto quanto
avevano per vivere, non era tutta la loro vita e per loro Dio non era l’Unico.
La vedova invece, come
spesso sanno fare i poveri, donò tutto, perché per lei Dio era tutto.
L’offerta al tempio era
destinata al tesoro del tempio e insieme ai poveri che il tempio sosteneva. È
segno dell’unico amore, verso Dio e verso il prossimo. Non si può amare Dio che
non si vede, se non si ama il prossimo che si vede (cf. 1 Gv 4, 20).
Nella primitiva comunità
dei cristiani di Gerusalemme il racconto della vedova doveva passare di bocca
in bocca. Come lei anch’essi mettevano tutto in comune e nessuno diceva
proprio quello che possedeva (cf. At 4, 32). Anche loro, come quella
vedova, provavano più gioia nel dare che nel ricevere, proprio come Gesù aveva
detto (cf. At 20, 35).
Quando egli tornerà nella
gloria a giudicare il mondo dovrà trovarci puri e liberi, poveri e leggeri,
senza inutili pesi, per volare con lui nei cieli. E ciò come frutto non di
ascesi, ma di dono: non avere più nulla perché tutto avremo donato per amore.
Per amore, non per
ostentazione, per meritare onorificenze per il bene compiuto, facendosi passare
per benefattori: «La destra non sappia ciò che fa la sinistra» (cf. Mt 6,
3).
Quanto contrasto tra gli
scribi che cercano il saluto nelle piazze e si fanno vedere nei primi posti e
l’umile vedova nascosta, che passa veloce (ma Gesù la nota!).
Se una ricompensa c’è, ella
l’attende da un altro, da Dio, che dà a chi ha dato e mette in grembo «una
misura abbondante, pigiata, scossa e traboccante», come con la vedova di
Zarepta alla quale non mancò più olio né farina.
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