Il confronto con altre esperienze
mistiche e lo studio della dottrina spirituale della Chiesa, portano Chiara
Lubich a prendere sempre più coscienza della novità del suo «viaggiare il Paradiso»:
Dio sta aprendo una nuova via spirituale.
La stessa espressione, “viaggiare il
Paradiso”, così originale, lascia intuire che si tratta di una autentica esperienza,
parola che nella radice, ex-pèrior, rimanda al recarsi sul posto per
conoscere, al viaggiare inteso come immergersi, penetrare. Non è viaggiare
“nel” Paradiso, ma “il” Paradiso, ossia vivere ogni realtà in esso presente,
così da esserne trasformati.
Leggendo gli scritti del ’49
ritroviamo il linguaggio dei “sensi spirituali” proprio della Scrittura e della
tradizione cristiana. Chiara afferma con semplicità: «Ho sentito distinta,
all’udito dell’anima, una voce»; «La sua voce sottile mi diceva…»; «Chiaramente
sentii la voce dello Spirito che mi parlava all’Anima»; «Sento questo gaudio
che m’invade tutta»; «E lo vidi e sentii [il Padre] come non mai»; «Allora mi
sentii proprio Lui [Gesù nell’Eucaristia]»; «Si sente (quasi che l’anima avesse
i sensi)…». La sua è un’autentica esperienza mistica, intesa come “adeguamento”
al Mistero, a Dio, come “trasformazione” in esso. Quando si parla di mistica si
parla anche di gratuità. Molte volte Chiara, durante gli incontri con la
Scuola Abbà (iniziati nel 1990 e continuati fino a poco prima della morte),
leggendo il suo testo si meravigliava di tanta bellezza, arditezza, esattezza,
profezia, chiedendosi: «Come ho potuto scrivere queste pagine?». E rispondeva
che è stato lo Spirito Santo a far capire, dire, scrivere quelle pagine: «È
stata una grazia».
Il carisma che Chiara riceve la
porta a condividere la sua esperienza, a non tenerla solo per sé. Per questo,
fin dal primo giorno, comunica a Igino Giordani quanto vive. Lo
stesso con le compagne. Non cerca tanto di svelare la propria esperienza,
quanto di introdurre, coinvolgere, rendere partecipi. Scriverà anni dopo:
«Questi misteri avvenivano in me, Chiara, ma, non appena comunicati al resto
dell’Anima, li avvertivamo comuni». L’esperienza diventa quindi proposta di
cammino insieme, una nuova spiritualità.
Da quando è
a Roma Chiara inizia a guardare con un certo distanziamento quanto ha vissuto e
continua a vivere. Si rende conto che la sua è una «via nuova… benché antica».
Inizia a parlare di “una mistica nuova”: «La nostra mistica è mistica di Gesù e
di Maria: la mistica del Testamento nuovo, del comandamento nuovo, la mistica della Chiesa, con
la quale la Chiesa è veramente Chiesa, perché Unità, Corpo Mistico,
Amore, perché in essa circola lo Spirito Santo che la fa Sposa di Cristo. È
mistica di Gesù, di Gesù completo […]. E Gesù è “dove due o più”. Quindi la mistica
di coloro che si amano a vicenda come Egli ci ha amato; di un’unità di anime
che rispecchia, stando in terra, la Trinità di Lassù: stando in terra,
perché quaggiù va testimoniato l’Uomo Dio e quaggiù è la Chiesa. Quindi la nostra
mistica suppone almeno due anime fatte Dio, fra le quali circoli veramente lo
Spirito Santo intero, fatto Persona, cioè un terzo, Dio, che li consuma in uno,
in un solo Dio: “Come io e te”, dice Gesù al Padre. Allora e solo allora i due
sono Gesù. Ecco la mistica nostra».
Che
la vita mistica sia vita in Cristo è un dato tradizionale (“Non sono più io che
vivo, è Cristo che vive in me”). La novità sta nell’aver intuito che si è
«veramente» Gesù, «Gesù completo» – come scrive Chiara –, quando si è il suo
Corpo, la Chiesa, quando cioè si è nell’unità. Gesù è nel “dove due o più”, è
Gesù fra noi. È un’esperienza che non riguarda solo la singola persona, ma la
comunità. Nella spiritualità dell’unità il soggetto dell’esperienza torna a
essere la Chiesa (l’Anima), come nell’esperienza dei due di Emmaus: «Non
sentivamo (plurale) come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via
(“Gesù in mezzo”) ci parlava e ci spiegava la
Scrittura?». La stessa Pentecoste fu un’esperienza dello Spirito fatta in
comune.
L’8 novembre
1950, Chiara parla di questa nuova spiritualità come di un «Castello esteriore in
cui Dio è fra noi». Un castello che ricorda il tempio dello Spirito di cui
parla la prima lettera di Pietro, dove ognuno è una pietra viva. L’immagine
deve esserle venuta in mente leggendo il Castello interiore di Teresa
d’Avila. Quando il 2 dicembre 2002 Chiara visita il convento dell’Incarnazione
ad Avila, nel libro d’oro lascia scritto: «Grazie S. Teresa, di tutto quanto
hai fatto per noi durante la nostra storia. Grazie!… Continua a vegliare su
tutti noi, sul nostro Castello esteriore che lo Sposo ha suscitato sulla
terra a complemento del tuo Ca-stello interiore, per la Chiesa bella
come la desideravi». Una spiritualità, quella di Chiara, che è insieme continuità
e novità nella vita della Chiesa.
Gustare
il Paradiso
«Dio
che è in me, che ha plasmato la mia anima, che vi riposa in Trinità (con i
santi e con gli Angeli), è anche nel cuore dei fratelli. Non è ragionevole che
io Lo ami solo in me… Dunque la mia cella… il mio Cielo, è in me e come in me
nell’anima dei fratelli. E come Lo amo in me, raccogliendomi in esso – quando
sono sola –, così Lo amo nel fratello quando egli è presso di me».
Amare
l’altro, perché anche nell’altro vive lo stesso Dio che vive in me. È la via
per “dilatare” l’interiorità, per costruire il Ca-stello esteriore, per
promuovere la fraternità universale, per giungere all’unità.
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