Ogni mattina, appena dopo il risveglio, guardo ai
santi del giorno per iniziare la giornata con loro. Guardo anche agli Oblati di
cui ricorre l’anniversario della morte. Ieri non c’era soltanto p. Gaetano
Liuzzo, ma anche p. Giuseppe Ladié.
P. Ladié: un uomo pacifico; come suo fratello p.
Carlo, mio compagno di studi, morto molto giovane; come il nipote p. Mauro, ora
felicemente superiore dello scolasticato di Vermicino. Un uomo buono, p. Ladié,
ma niente di eccezionale. Lo scatto è avvenuto con l’arrivo del tumore che in
tre anni lo ha consumato.
In una sua lettera scriveva: «Sto vivendo e scoprendo
in modo particolare l’Eucaristia. Dico la Messa per lo più seduto, nella
cappellina della comunità [a causa della malattia] (…). Ebbene, quando alla
consacrazione dico: “Questo è il mio Corpo, cioè la mia vita, data per voi”
penso: ma io sono parte del Corpo mistico di Cristo, quindi con verità posso
offrire me stesso, la mia vita, per la Chiesa, il mondo, la Congregazione, la
Provincia, le persone care ecc. Così “Questo è il mio sangue…”; posso far dono
della mia sofferenza… Mai come adesso sento di realizzare il mio sacerdozio,
mai come adesso mi sento “Oblato”, “offerto”, e quando la morte verrà, allora l’Oblazione
sarà completa; e voi reciterete, sì, il De Profundis, perché ne avrò bisogno,
ma con più forza canterete il Magnificat, perché “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”,
in me indegno servo…».
Quello che ieri mi ha particolarmente colpito leggendo
di lui è un’altra sua testimonianza: «Gesù mi concede momenti intensi di
cenacolo con Lui. Gioie profonde. Mi fa capire però che devo uscire con Lui per
vivere al Getsemani».
Sto ultimando
il mio libro sul cenacolo, dove nell’introduzione riporto il bellissimo
discorso di Papa Francesco pronunciato nel cenacolo il 26 maggio 2014, in
occasione della sua visita in Terra Santa: «Qui,
dove Gesù consumò l’Ultima Cena con gli Apostoli; dove, risorto, apparve in
mezzo a loro; dove lo Spirito Santo scese con potenza su Maria e i discepoli,
qui è nata la Chiesa, ed è nata in uscita. Da qui è partita, con il Pane
spezzato tra le mani, le piaghe di Gesù negli occhi, e lo Spirito d’amore nel
cuore».
“Chiesa
in uscita” è uno dei cavalli di battaglia di Papa Francesco, un termine che
rischia di essere un po’ inflazionato. “Chiesa in uscita” fa subito pensare alla
Chiesa di Pentecoste, che lo Spirito scaraventa fuori del cenacolo ad
annunciare a tutti il Risorto.
P.
Giuseppe Ladié mi ricorda che la prima “uscita” della Chiesa dal cenacolo è
stata per andare al Getsemani.
«Potete voi
bere il calice che io sto per bere?», chiese Gesù ai figli di Zebedeo. Con
entusiasmo gli risposero di sì (Mt
20, 22). «Andiamo anche noi a morire con lui», disse Tommaso rivolgendosi ai
suoi compagni (Gv 11, 16). «Darò la
mia vita per te», proclamò con passione Pietro (Gv 13, 37). Quando però furono nell’orto degli ulivi non furono
capaci neppure di vegliare un’ora con Gesù, lo lasciarono solo, lo abbandonarono,
lo rinnegarono, lo tradirono. Gesù accettò di bere il calice della volontà del
Padre che lo chiamava a dare la vita per l’umanità intera, ma in quel momento
gli apostoli rifiutarono di berlo.
La prima
uscita della Chiesa è per andare a condividere la passione e morte del suo Signore,
per bere il calice con lui. In quest’ora in cui la Chiesa sta perdendo
credibilità e sembra soccombere sotto il peso degli scandali, quando il Papa,
suo segno visibile di unità, viene criticato e rifiutato, la tentazione è la
stessa degli apostoli: rinnegare e fuggire. Chiesa in uscita è condividere l’umiliazione
di Cristo, la sua angoscia nel vedersi tradito, rifiutato, abbandonato. «Volete
andarvene anche voi?», sembra ripetere Gesù (Gv 6, 67). Chiesa in uscita è far proprio l’invito della Lettera
agli Ebrei: «Usciamo dunque verso di lui fuori
dell'accampamento, portando il suo disonore» (Eb 13, 13).
«Nata dal sangue di un Dio che muore sulla croce –
scriveva sant’Eugenio de Mazenod ai suoi fedeli di Marsiglia –, [la Chiesa]
avrà un’esistenza conforme alla sua origine e sempre, tanto sotto la porpora come
nelle galere, porterà la croce dolorosa, dove è sospesa la salvezza del mondo.
Indissolubilmente unita a Gesù Cristo, calunniato, perseguitato, condannato
dagli ingrati che voleva salvare, camminerà con costanza sino alla fine dei
secoli nella via delle sue sofferenze e in un’unione ineffabile che l’inferno
fremente di rabbia proverà incessantemente a turbare; dovrà sempre lottare,
come il suo sposo divino che è anche il suo eterno modello, contro tutti gli
errori e tutte le passioni scongiurate, e sostenere i diritti eterni di Dio,
che sono la verità e la giustizia (Lettera
pastorale, 19 gennaio 1845).
Al
termine della vita, nella sua ultima Lettera pastorale del 16 febbraio 1860,
cantava il suo inno d’amore a Cristo e alla Chiesa, indissolubilmente compenetrati
l’uno nell’altro: «Come è possibile separare il nostro amore per Gesù Cristo da
quello per la sua Chiesa? Questi due amori si confondono: amare la Chiesa è
amare Gesù Cristo e viceversa. (…). Ora, carissimi fratelli, vi domandiamo: non
amare di un amore filiale la Sposa di Gesù Cristo che Egli ci ha dato come
Madre, non amare la famiglia dell’Uomo-Dio, la sua casa vivente, il suo tempio
santo, la sua città terrena, immagine della città eterna, il suo regno, il suo
gregge, la società che ha fondato, in una parola l’opera che è stata l’oggetto
di tutte le sue fatiche e che è l’oggetto di tutte le sue compiacenze quaggiù,
non è un non voler amare Lui stesso?».
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