Ho finito di leggere un romanzo capitatomi tra mano per caso, così come spesso mi capita con i libri. Di Riccardo Bacchelli. Per questo mi aveva attirato l’attenzione. E anche perché il libro è venuto alla luce con me, nel 1948.
È il racconto di uno dei
due indemoniali di Gerasa liberati da Gesù. Un racconto che a mano a mano che
scorrono le pagine si fa sempre più improbabile e anche un po’ astruso,
soprattutto nel travaglio interiore del protagonista, a nome Imatar.
Fascinoso nel suo ricco
linguaggio.
E a proposito
di linguaggio mi è sembrata particolarmente profonda l’impressione provata da Imatar nell'ascoltare le parole di Gesù:
Nuova ed
antica, dallo sprofondo dell’animo, sorgeva la persuasione d’avere accolto
nelle parole di quell’uomo un che d’inaudito e di nuovo al mondo, da che vi si
eran pronunciate parole e fino a che vi si sarebbero pronunciate. Riluttante,
scandalizzata, disperata, la ragione poteva rifiutar loro l’accesso, non che
l’assenso; ma esse si imponevano, non già per forza propria, ma della persona
di quell’uomo Gesù, il quale colla sua presenza le rivelava nate coll’anima
prima dell’origine dei tempi, e perenni, fino alla fine ed oltre, da sempre e
per sempre. La ragione, al par del mondo, poteva ricusarle ed odiarle, ma
doveva arrendersi a quel che v’era in esse, di là dalle parole medesime per sè
stesse. (…)
La
violenza di quella mansuetudine, la forza di quella pace, la rapina di quella
carità, eran tali, che l’animo gridava di spavento, come davanti all’infinito e
all’eterno aperti in una dolcezza di felicità senza parole. Ne rifuggiva con
indignazione, ma sapeva che questo era l’irrecusabile modo di ritrovarvisi; più
forte della ragione indignata, era l’acquiescenza dell’anima al mistero d’una
suprema pace contenta, in cui essa anima, ritrovando sè stessa nel perdersi
come nel mirifico gorgo della contemplazione, conosceva l’ultimo di sè medesima
in una semplice gioia abbandonata e confidente.
Qualcosa
di simile Itamar si ricordava d’aver trovato descritto nel greco contemplatore
delle idee, in Platone; ma descritto; e in ciò stava l’incomparabile ed
incolmabile differenza. Nel filosofo altissimo, la parola era pur sempre un
velo, su cui la verità traluceva per nascosto splendore, per simboli e
immagini. In questo santo di Nazaret, la parola era il corpo di luce della
verità presente, che, della parola vestendosi, vi si rivelava, e rapiva lo
spirito, e rinnovava l’anima. In Platone egli aveva viste le ombre sul fondo
della caverna; adesso aveva visto, in Gesù e nella sua parola, la luce che le
generava. Quest’uomo Gesù non diceva la verità: era la verità incarnata in
innocenza di spirito, in carità d’anima, perfette e viventi.
(R.
Bacchelli, Lo sguardo di Gesù,
Rizzoli, Milano 19542,
p. 113-114)
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