Serata di incontro con una sessantina di artisti di teatro e televisione e operatori nel campo dei media. Ho raccontato una mia piccola storia:
Nel
1975, terminati gli studi di teologia, iniziai la mia specializzazione nella
storia del monachesimo e nella teologia
della vita consacrata. Uno dei primi libri che lessi fu un’operetta piccola
piccola, ma ispirata, di Giuseppe Turbessi, in quegli anni abate del monastero
benedettino di san Paolo fuori le Mura: Ascetismo
e monachesimo prebenedettino, Studium, Roma 1961, £ 1.000. Tra l’altro il
testo XVI delle Vite dei Santi Padri
mi fece quasi tenerezza. Mi piacque anche la traduzione del primo 1300, a opera
di Domenico Cavalca, nel suo Volgarizzamento
delle Vite de’ SS. Padri:
“Sette probatissimi monaci che abitavano in quell’ermo
che confina co’ Saraceni, e divisi ciascuno per sé in una cella, ma uniti insieme
per vincolo d’amore (...). Questi benedetti stando in quella solitudine sterile
e diserta quasi inabitabile, e tanto arida, una fiata la settimana si convenivano
insieme, cioè lo sabato in sulla nona, e ciascuno procurava alcuna coserella da
mangiare, chi noci, e chi fichi, e chi datteri, e chi erbe, e chi pastinache, e
così insieme facevano carità e delle predette cose vivevano continuamente e non
era mai loro esca, né mai usavano pane, vino, né olio, ma pure di pomi e d’erbe
si nutricavano (...) e acqua in quello diserto non si trovava e non bevevano
altrimenti, se non quello che la mattina raccoglievano dalla rugiada che veniva
in quel’erbe la notte, e di quella bevevano”.
Quest’anno
ho pubblicato I detti di apa Pafnunzio.
Il libro inizia proprio con quelle parole lette per la prima volta quarant’anni
fa: “Sette probatissimi monaci che
abitavano in quell’ermo che confina co’ Saraceni, e divisi ciascuno per sé in
una cella, ma uniti insieme per vincolo d’amore…”. Invece di dire che si
tratta di una traduzione del Cavalca, mi sono permesso la licenza di indicare
come riferimento un libro del 1700.
Pochi
giorni fa incontro un professore che ha seguito la tesi di dottorato su uno dei
padri dell’antico monachesimo. Mi racconta che appena saputo dell’apparizione
del mio libro si è affrettato a raccomandarlo allo studente. Quando poi lo ha preso
in mano e ha cominciato a leggerlo qua e là, si è detto: “Ma non è possibile,
apa Pafnunzio non scriveva così. Sicuramente questo è un riadattamento del
prof. Ciardi”. Allora – così mi racconta – è passato alla pagina
d’introduzione: “Quando leggo: Sette
probatissimi monaci che abitavano in quell’ermo che confina co’ Saraceni…,
ho subito capito che era una finzione letteraria. Queste parole non potevi che
essertele inventate tu”.
Eppure
di tutto il libro queste sono proprio le uniche parole autentiche dell’antico monachesimo!
Potenza
della finzione letteraria, più vera della realtà storica.
Nessun commento:
Posta un commento