Sono seduto sulla grande poltrona dove era solito sedere
sant’Eugenio de Mazenod, al suo tavolo, con davanti il caminetto che accendeva
durante le freddi serate d’inverno, quando il Mistrale soffia forte. La
finestra, socchiusa, dà sul chiostro dove un tempo meditavano le monache
carmelitane. Di loro, disperse dalla Rivoluzione francese, rimangono soltanto
alcune lapidi delle tombe, oggi murate lungo una delle pareti del chiostro.
Nella stanza penetrano i raggi meridiani del primo sole di
primavera. Illuminano l’angolo dove una volta era posto il letto, adesso
sostituito da un mobile con alcuni oggetti appartenuti a sant’Eugenio: il
breviario per la preghiera quotidiana, una tazzina da caffè, il calice
dell’ordinazione episcopale... Campeggia anche un suo ritratto da vescovo. Il
volto non è però quello del tempo dell’episcopato: è il volto giovane, fresco,
bello di quando trentenne abitava in questa stanza, dal 1816 al 1823. Gli occhi
grandi ereditati dalla mamma, lo sguardo lontano, sicuro, pieno di speranza.
Una persona serena e volitiva. Ha appena dato vita a una comunità di
missionari, composta, agli inizi, da appena sei giovani sacerdoti, “i migliori
che ci siano in diocesi”, come scrive con convinzione.
Sette anni in questa stanza, al primo piano dell’antico
monastero. Affacciato alla finestra vedeva nel cortile interno i giovani
universitari che abitavano la casa, i giovani novizi che si preparavano a
diventare missionari, i giovani sacerdoti che andavano e venivano presi dal
loro ministero di annuncio del vangelo in città, nelle borgate vicine, in tutta
la Provenza e oltre. Sotto le arcate del chiostro vedeva anche passare, furtiva
e nascosta, Teresa Bonneau, che preparava i pasti per tutti e, quando non c’era più
pane, andava lei stessa a comprarlo, pagando di tasca propria.
Nella Regola Eugenio aveva scritto che i missionari, dopo
aver passato la maggior parte del loro tempo fuori casa ad annunciare il
Vangelo, una volta tornati, avrebbero dovuto ritirarsi nella loro stanza a
pregare, meditare, leggere la Sacra Scrittura e le grandi opere della
spiritualità cristiana, preparare i testi delle conversazioni e delle catechesi
per le successive missioni. Lo immagino intento in questo lavoro silenzioso,
così come prescriveva agli altri membri della comunità.
Qui scriveva gli appunti
per la futura regola, le lettere al padre e allo zio ancora in esilio in
Sicilia, organizzava il lavoro missionario, faceva i colloqui personali con i
primi compagni, con i giovani… Me lo immagini così com’era: animato dal fuoco
dell’amore di Dio, col desiderio di far conoscere a tutti quell’immenso amore
di Dio che aveva sperimentato e che continuava a spingerlo nell’opera
missionaria.
Da qui soprattutto elaborava la strategia
apostolica e scriveva a sindaci e vescovi per appianare la strada e ai parroci
che continuamente chiedevano la presenza dei missionari.
Il ritratto da vescovo
che hanno posto in questa stanza, come ho detto, ha il volto di sant’Eugenio al
tempo di quanto viveva in questa stanza. Quello stesso che lo ritrae con la
croce da Oblato all’inizio della fondazione, ritratto che mi ha sempre
affascinato perché vi si legge tutta la determinazione di iniziare un’opera
nuova e la sicurezza di sé. Si vede che vive sotto la spinta di una grazia, è
pieno di energie, possiede lo slancio della giovinezza, la brillantezza di
un’intelligenza creativa, la forza di un affetto intenso e passionale.
Ma sul caminetto della
stanza, vi è anche, piccola piccola, la foto di un altro sant’Eugenio, quello
che non ha mai vissuto in questa stanza: il sant’Eugenio degli ultimi tempi di
Marsiglia, ormai vecchio, affaticato, provato dalle sofferenza, con le rughe e
il volto ingiallito dagli anni, minato da un cancro che lo porterà presto alla
morte. Prima mi piaceva meno quest’immagine di sant’Eugenio. Ora l’apprezzo
come non mai. Vi scorgo l’uomo che si è dato completamente alla sua causa, ai
missionari, alla diocesi, alla gente. Senza risparmio, prendendo su di sé croci
personali e sociali, i dolori della Chiesa e dell’umanità intera. I sogni non
ci sono più. C’è la realtà, così com’è, fa assumere e da amare. La fiamma viva
e crepitante degli inizi non manda più bagliori, si è trasformata in brace rovente.
Nessun commento:
Posta un commento