Un convegno sulle missioni al popolo! Questa sì che è una bella iniziativa: Firenze, 7-9 ottobre. Ne ho subito approfittato, soprattutto per incontrare fratelli e sorelle, i più 50 partecipanti laici, Oblati, Comi… anche un vescovo.
Le testimonianze, specialmente dei laici della famiglia oblata sono bellissime, tutti hanno partecipato a decine e decine di missioni. Sono incantato (è l’unico che non ha mai partecipato alle missioni!).
Dato che partecipo mi hanno chiesto di avviare l’incontro
con due parole, pensando alle origini.
Nell’immaginario
romantico dell’Ottocento il missionario era un eroe. Uno slogan lo definiva
nella sua ardua impresa: “Attraversare i mari, conquistare un’anima, e morire”.
La missione era abitualmente collocata in un Paese lontano e il fine salvare
almeno un’anima, bastava un’anima, perché, essendo redenta dal sangue di
Cristo, ha un valore infinito. Dopo di che il missionario poteva anche morire.
Gesto coraggioso quello del missionario. Ma la povera “anima” salvata che poteva
fare una volta lasciata sola in un ambiente “pagano”?
Per sant’Eugenio per
essere missionario non si dovevano attraversare i mari, come invece pensava il
suo amico Forbin-Janson, che voleva andare in Cina e invitava l’amico ad andare
con lui. Eugenio gli rispondeva che la missione ce l’aveva in casa, non
bisognava di andare lontano. La missione al popolo va dai popoli vicini, non da
quelli lontani.
Salvare un’anima? La
missione al popolo ha di mirare piuttosto la salvezza della persona nella sua
interezza, inserita nella propria famiglia, nel lavoro, nelle relazioni con
le altre persone e col mondo circostante, in modo che possa trovare un adeguato
ambiente di vita che favorisca la sua crescita. Per questo sant’Eugenio durante
le missioni non solo dialogava con le singole persone, ma andava a trovare le
famiglie.
La missione al popolo
non ha di mira soltanto la salvezza dell’anima ma di un “popolo”, di un insieme
di “anime”, la costruzione di una società. Per questo sant’Eugenio durante le
missioni istituiva, ad esempio, dei “tribunali di riconciliazione” per
risolvere questioni che dividevano famiglia da famiglia. La comunicazione della
“buona novella”, pena la sua evanescenza, deve risolversi in rapporti
interpersonale, nell’incontro tra persone che imparano a conoscersi, a
dialogare, a condividere l’esperienza cristiana, giungendo a possedere insieme
l’incontro di ciascuno con Cristo.
“… e poi morire”? No
davvero. Come san Paolo: mi piacerebbe morire per ricongiungermi a Cristo, ma
se è bene per voi rimango. Così il missionario: una volta terminata la missione
partiva, ma poi tornava per vedere come andavano le cose, per incoraggiare,
sostenere…
Ci sono abbastanza spunti
per la prolusione a un convegno sulla missione al popolo?
Non ho usato power
point o simili strumenti tecnici. Quando ci voglio ci vogliono, ma non erano
opportuni per rievocare la missione al popolo di una volta. Allora non c’era il
cinema, c’era in teatro. E i missionari erano “teatrali”. Non avevano
microfono, non avevano lo schermo che ingigantiva il loro volto, quindi da
lontano non si sentiva bene e non si vedeva bene. Occorreva parlare ad alta
voce, quasi gridare e compiere gesti ampi che accompagnassero le parole per renderle
maggiormente comprensibili. Uno dei problemi più angosciosi dei missionari di
allora era il mal di gola, la perdita della voce: le missioni per le più si
tenevano d’inverno, nelle chiese gelate… E sant’Eugenio raccomanda di bere vino
caldo, di preparare infusi…
Anche Paolo, grande missionario itinerante, era teatrale: “Galati, davanti ai quali ho rappresentato al vivo Cristo Crocifisso...”. Quando padre Ettore faceva le prove di canto con la gente, non faceva teatro? Quando padre Marino si interrompeva con lunghi silenzi che attiravano più l’attenzione delle parole, non faceva teatro?
Fare teatro? No, esprimersi con convinzione; una convinzione che muove tutte le fibre dell’essere, voce, gesto… È tutta la persona che parla a tutta la persona.
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