Nel
convegno di Firenze sulle missioni al popolo ho risfoderato uno dei miei
cavalli di battaglia, ossia la convinzione che occorre creare dei luoghi di
riferimento per le persone alle quali si rivolge l’opera di evangelizzazione.
Non si può vivere da soli la fede che, per definizione è un evento di fede. C’è
bisogno di luoghi profetici, capaci di ispirare una nuova socialità, bozzetti
di umanità realizzata secondo una relazionalità evangelica, fatta di
accoglienza, dono, gratuità, reciprocità, perdono. Lo sono i santuari, i
monasteri, le parrocchie, ma possono e devono esserlo anche luoghi più
quotidiani, come la famiglia, un gruppo di amici, un gruppo di preghiera, una
associazione…
Fin dall’inizio del cristianesimo il luogo di incontro era
la chiesa domestica, familiare, di vicinato. Dobbiamo tornare a queste piccole
comunità vive, disseminate capillarmente, dove le persone si sentono coinvolte,
responsabilizzate, attive, protagoniste.
Abbiamo bisogno di trovare una “casa”! Dove possiamo sempre andare e da dove ripartire. Dove troviamo amici, idee, aiuto, pace, nuovo coraggio...
Mi
sembra sempre attuale il modello proposto da uno dei primissimi scritti
cristiani, la Lettera a Diogneto: «I
cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per
territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei
loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche
strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere». Sono persone
normali, come tutte le altre. Eppure possiedono un segreto che consente loro d’incidere
profondamente nella società, diventandone come l’anima. Oggi come allora, se
viviamo tra noi quell’unità per la quale Gesù ha dato la vita, potremo creare
un modo di vivere alternativo e nello stesso tempo rimanere calati nella
società nella quale viviamo, per seminare germi di speranza e di vita nuova.
Piuttosto che i luoghi dell’utopia, che rimandano a un mondo meraviglioso ma non esistente,
occorre creare quelli dell’eterotopia,
luoghi “altri”
rispetto a quelli che abitualmente conosciamo e abitiamo. “Luoghi” non
necessariamente fisici, ma relazionali, diffusi nel terreno del quotidiano,
che lasciano intravedere come può essere una società animata dal Vangelo. Luoghi
dove si possa invitare chiunque: “Vieni e vedi”. Luoghi che proclamano non un
messaggio consolatorio o intimista, ma la piena rilevanza umana e sociale della
buona novella. Luoghi che sappiano amalgamare in nuova unità culture e popoli
diversi, accogliendo il diverso, l’emigrato, il rifugiato…
Non si può proporre un Vangelo che non sia vita e non si
può proporlo se non attraverso le esperienze concrete che esso produce
nell’esistenza familiare, negli ambiti del vivere e del lavorare quotidiano.
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