Dopo
Francesco a Greccio e Fontecolombo, oggi Benedetto a Subiaco. Un altro luogo “carismatico”,
che custodisce le intuizioni della Regola benedettina. Mentre mi lascio
avvolgere dall’architettura e dagli affreschi, ripasso i 10 punti nei quali 20
anni fa pretesi di sintetizzare la grande Regola:
1. Una vita evangelica
Tutta la Regola è posta all’insegna dell’ascolto: «Ascolta, figlio…» (RB Prologo 1). L’invito orienta primariamente verso l’abate, ma egli è solo l’intermediario di un ascolto più profondo: quello della Parola di Dio, del Signore che parla: «Ascoltiamo la voce di Dio che ogni giorno si rivolge a noi…» (RB Prologo 9). «Che cosa vi può essere di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci chiama?» (RB Prologo 19). (Il silenzio è la condizione per l’ascolto…: RB 7).
Si
tratta di diventare discepoli della Parola, ascoltandola, accogliendola,
mettendola in pratica (RB Prologo 1). «Il Signore aspetta che noi
ogni giorno rispondiamo con i fatti ai suoi santi ammonimenti» (RB Prologo
35). Benedetto invita a non scostarsi mai dal magistero di Dio, ma piuttosto di
perseverare nel suo insegnamento (cfr RB
Prologo 50).
Cristo
diventa così il centro del progetto monastico. Il monaco non deve avere «assolutamente
nulla più caro di Cristo» (RB 5,2).
La Regola si chiude con l’ammonimento: «I monaci… nulla assolutamente antepongano
al Cristo» (RB 72, 11).
2. Una vita in cammino
Il
monaco è colui che accoglie incondizionatamente l’invito del Signore ed è
pronto a seguirlo. Di qui l’idea di un cammino da intraprendere senza indugi e
senza mezzi termini, con grande serietà e radicalità. L’intera vita monastica è
sotto l’immagine del viaggio: «Procediamo sulle sue vie, sotto la guida del
Vangelo» (RB Prologo 21).
Il
monastero benedettino diventa un’esigente scuola per porsi al servizio di Dio,
un luogo di formazione al cammino verso Dio. Uno dei tratti caratteristici per
il discernimento della sua vocazione è «se egli cerca veramente Dio» (RB 58, 7). Ha come obiettivo quello di
condurre ognuna delle persone verso la vita eterna. La vocazione monastica si
inserisce così nel grande discorso del ritorno di tutta l’umanità a Dio dopo
l’allontanamento prodotto dal peccato.
3. Una scuola con un maestro e una Regola
Naturalmente
anche questa come ogni altra scuola ha un suo maestro, ed è costituita sotto il
suo magistero e la sua guida: l’abate. Come in ogni altra scuola anche la
«schola Dominici servitii» possiede anche un proprio testo: la Regola, che ha
un valore enorme e a cui anche l’abate soggiace. La comunità benedettina è
quindi costituita dall’obbedienza all’abate e alla regola.
4. L’abate, presenza di Cristo Maestro
L’importanza
del ruolo dell’abate risiede nel fatto che è visto come la presenza stessa del
Cristo in mezzo ai suoi discepoli. L’abate occupa il posto di Cristo, come dice
espressamente la Regola, fin dal secondo capitolo: «Per fede sappiamo che nel
monastero tiene le veci di Cristo; poiché viene chiamato con il suo stesso
nome, secondo la parola dell’Apostolo: Voi avete ricevuto uno spirito di figli
adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abba, Padre» (RB 2,3). Al termine della Regola si riafferma ugualmente tale
visione di fede: «L’abate, che fa le veci di Cristo, sia chiamato “signore e
abate”, non perché egli se ne arroghi il titolo, ma per onore ed amore di
Cristo» (RB 63,13). Ritroviamo così
il prototipo del gruppo dei Dodici attorno a Gesù.
La
Regola addita comunque la presenza di Cristo non soltanto nell’abate, ma anche
in tutti i fratelli del monastero, negli ospiti («Tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come
il Cristo in persona, poiché un giorno egli ci dirà: Ero forestiero e mi avete
ospitato»: RB 53,1), negli infermi («Prima di tutto e soprattutto ci si
deve prendere cura dei fratelli malati, servendoli veramente come Cristo in
persona, poiché egli stesso dice: Ero malato e mi avete visitato»: RB
36,1-2) …
5. La vita in comune
La
centralità dell’abate e la gerarchizzazione del monastero non escludono i rapporti
orizzontali tra i monaci. Piuttosto li ordina. Nella Regola appare per 25 volte
la parola congregatio, ossia i monaci sono persone che vogliono compiere
un cammino insieme e per questo si sono radunati attorno ad un abate. Benedetto
scrive la sua Regola per i cenobiti, per «coloro che vivono insieme» (RB 1,2). La scuola è una società di fratelli: il termine appare un centinaio
di volte contro le 36 del termine monaco.
La
Regola sembra fare intravedere una evoluzione della concezione di comunità.
All’inizio la comunità è vista piuttosto in funzione della formazione
dell’individuo, seguendo l’eredità dell’esperienza del deserto. Alla fine i
capitoli 67-72 testimoniano una differente concezione della comunità, con
tratti maggiormente orizzontali. Si può quindi supporre una evoluzione
dell’esperienza di san Benedetto, che lo ha portato a poco a poco a scoprire il
valore intrinseco della comunità.
6. Le relazioni improntate dalla carità fraterna
Pur
nella gerarchizzazione dei compiti possiamo notare la profonda coscienza di
uguaglianza tra tutti i membri del monastero. «L’abate non faccia distinzione
di persone in monastero. Non ami uno più dell’altro (...). Non anteponga mai il
nobile a chi è entrato in monastero venendo dalla condizione di schiavo (...).
E se, per esigenza di giustizia, l’abate decide di promuovere un fratello, egli
lo faccia prescindendo dalla considerazione della classe sociale cui il monaco
apparteneva. Per il resto, ciascuno tenga il proprio posto, perché schiavi o
liberi tutti siamo uno in Cristo (...). Infatti presso Dio non c’è parzialità.
(...) Uguale per tutti sia dunque la carità dell’abate» (RB 2,16.22). Tra tutti deve esserci una gara nello stimarsi a
vicenda (cfr RB 63,17).
7. L’obbedienza, il silenzio e l’umiltà
Al
cuore della proposta spirituale della Regola c’è l’obbedienza, il silenzio e
l’umiltà. L’obbedienza è la via maestra del ritorno a Dio, il modo per rinunciare
alla propria volontà, per compiere soltanto il volere di Dio e per servire
Cristo Signore (cfr RB Prologo 2-3.6). La Regola si mostra
convinta «che unicamente per questa via dell’obbedienza [i monaci] andranno a
Dio» (RB 71,2). «Appena un superiore
ordina loro qualcosa, come se fosse veramente comandato da Dio, non possono
sopportare alcun indugio nel compierla. (…) Uomini di simile tempra
interrompono dunque all’istante le loro occupazioni; si staccano dalla loro
propria volontà, subito pronti… con un’obbedienza che mette le ali ai piedi. (…) L’ordine dato dal
maestro e la perfetta esecuzione del discepolo procedono insieme, rapidissimi,
con una simultaneità sorprendente» (RB
5,4.7-9). È sottomissione all’altro, non soltanto all’abate, fino all’obbedienza
reciproca tra tutti i monaci, in conformità all’esempio di Cristo, come frutto
ed espressione del vicendevole amore: «L’obbedienza è un bene così grande che i
fratelli devono sentire il bisogno non solo di offrirla all’abate, ma anche di
scambiarsela tra di loro» (RB 71,1).
L’obbedienza in questo caso diventa sinonimo di rapporto di mutua sottomissione.
Il
cammino spirituale è descritto come progressione nella via dell’umiltà,
suddivisa in dodici gradi. Essa porta a non agire più «per timore dell’inferno
ma per amore del Cristo e per l’abitudine al bene e la dolcezza che deriva
dalla pratica delle virtù» (RB 8,69).
8. L’amore nell’itinerario spirituale del
monaco
La
Regola mette l’amore come ultimo dei gradini dell’umiltà e al culmine
dell’ascesi spirituale (cfr RB 7).
Esso, nello stesso tempo, è anche il primo degli strumenti per ogni opera
buona: «Prima di tutto, amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta
l’anima, con tutte le forze. E amare il prossimo come se stessi» (RB 44, 1-2). Soltanto dopo avere
enunciato il duplice comandamento vengono enumerati gli altri innumerevoli
precetti, quasi espressione dell’amore e condizione per vivere l’amore.
Nell’ultima
parte della Regola la carità acquista sempre maggior rilievo, fino a informare
l’intero «ordine della comunità». La Regola, che era iniziata con la figura
dell’abate, posta in rilievo in tutta la sua centralità, recupera qui
l’elemento di rapporto interpersonale animato dalla carità. Ciò che dà senso a
tutto il capitolo riguardante l’ordine della comunità è infatti la parola di
Paolo: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (RB 63,17).
Lo
stesso amore deve guidare non solo i rapporti tra coloro che hanno ruoli differenti,
ma anche quelli tra i diversi gruppi d’età: «I giovani abbiano venerazione per i
loro anziani; gli anziani amino con predilezione i giovani» (RB 63,10).
Giungiamo
così al capitolo 72 della Regola. È stato affermato che si dovrebbe partire
proprio da questo capitolo per rileggere l’intera Regola nella linea della
comunione e della carità (E. Manning, L'importance
du chapitre 72 de la Règle de S. Benoît, «Regulae Benedicti Studia» 5
(1977) 285-288). In effetti la Regola, al suo termine, raggiunge il punto più
intenso della progressiva scoperta della carità come norma delle relazioni intracomunitarie
tra i monaci: «Essi, dunque, si prevengano nello stimarsi a vicenda; sopportino
con instancabile pazienza le loro infermità fisiche e morali; facciano a gara
nell’obbedirsi a vicenda, nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli
altri; amino con cuore casto tutti i fratelli; temano Dio con trasporto
d’amore; vogliano bene al loro abate dimostrandogli una carità umile e sincera;
nulla assolutamente antepongano al Cristo; ed egli ci conduca tutti insieme
alla vita eterna» (RB 72,4-11). Tutti
insieme, pariter: i monaci camminano
uniti nella comunione tra di loro e nell’amore di Cristo che tutti guida e
porta alla vita eterna.
9. Ora et labora
Il
primato va all’opus Dei a cui il
monaco deve dedicarsi «con amore» (RB
58,7). La vita liturgica, la preghiera, la lectio
divina sono descritte con una cura tutta particolare e nei minimi dettagli.
Ma
vi è quell’equilibro che caratterizza tutta la legislazione benedettina che
porta i fratelli in certi tempi a «dedicarsi al lavoro manuale e in altre ore
alla lectio divina» (RB 48,1). È quello che la traduzione
successiva ha condensato nella formula: ora
et labora, ove il lavoro si inserisce nella collaborazione dell’uomo
all’azione di Dio nella creazione.
Molto
ricca, al riguardo, risulta l’articolazione dei vari compiti per il buon andamento
della vita monastica, sia nella struttura di governo (abate, decani, priori…),
sia nella distribuzione degli impegni concreti: cellario, cuochi, lettori,
artigiani, portinai…).
Il
monastero diventa una cittadella laboriosa e produttiva che tanto influsso avrà
nella civilizzazione dei popoli: «Per quanto è possibile, il monastero sia
strutturato in modo da avere nel suo ambito tutto quanto è necessario, ossia
l’acqua, il mulino, l’orto e le attrezzature per esercitare i vari mestieri» (RB 66, 6).
10. In sintonia con la tradizione della
Chiesa
Grande
innovatore, Benedetto ha saputo porsi in ascolto di tutta la tradizione precedente.
Al termine della sua Regola scrive: «Per chi vuole affrettarsi verso la
perfezione della vita monastica, vi sono gli insegnamenti dei santi padri che,
messi in pratica, conducono al culmine della santità». Dopo aver rimandato alla
Scrittura quale «norma rettissima per la vita dell’uomo», addita esplicitamente
i grandi filoni a cui si è ispirato nel proprio insegnamento: «le “Conferenze”
dei padri, le “Istituzioni”, le loro “Vite”, la stessa Regola del nostro santo
padre Basilio» (RB 73,2-5). Non si
tratta solo di fonti per Benedetto, ma anche indicazioni per un cammino “oltre
la Regola” che è si rivolge a “principianti”.
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