Questi giorni il mio
blog siciliano si è ridotto a sole poche foto. Eugenio de Mazenod, che non
aveva la macchina fotografica, amava invece descrivere nei minimi particolari e
con verve i suoi viaggi nell’Isola, a cominciare da quello nei luoghi dove sono
stato seguendo i suoi passi. Li ho riletti con piacere in questi giorni. Assieme
al conte Cesare de Chastellux e a una guida locale, Eugenio all'inizio del 1800 partì a cavallo da
Palermo diretto ad Alcamo e Segesta:
Da Valguarnera,
attraverso vie impraticabili giungemmo ad Alcamo, cittadina piuttosto
considerevole: da lì dovevamo puntare su Segesta. Ci avevano raccomandati a M. l’abbé Pastori, uno degli uomini più
ragguardevoli del paese, che ci accolse molto gentilmente e ci offerse
ospitalità. Dopo un pasto serale molto leggero per giovani della nostra età,
stanchi morti dopo un viaggio così faticoso, chiedemmo di andare a dormire. Ci
condusse in una camera molto graziosa con due letti e, quantunque non fossero
tanto comodi, facemmo una sola tirata fino all’alba del giorno dopo che
dovevamo recarci a Segesta per essere di ritorno all’ora di pranzo.
Prima di montare a
cavallo sentimmo la messa ed eccoci in viaggio attraverso i campi, in mancanza
di strade tracciate: è così del resto in tutta la Sicilia. Nonostante la
dolorosa impressione di dover percorrere un tratto così lungo in mezzo a
terreni coltivati o destinati a semina, non ci si stanca di ammirare la
bellezza di queste zone. Il profumo che sale da narcisi, timo, rosmarino,
assenzio e tante altre specie di erbe aromatiche che si calpestano, la vista di
oleandri e di tanti altri arbusti che altrove si tengono tanto al riparo nelle
serre, allietano la vista e l’olfatto.
Eravamo entusiasti io
e il mio compagno, quando costui, imponendo una pausa alla nostra ammirazione,
divorato dalla fame, mi fece notare che l’uomo non si nutre di odori e di
sapori, e che era tempo di cercare di mettere qualcosa sotto i denti. Ma come
fare in mezzo a quel deserto? Non avevamo incontrato nessuno e la nostra guida
non aveva pensato a portare al seguito qualche provvista. – Amico, gli dissi
ridendo, il tuo discorso è troppo prosaico; che bisogno c’è di mangiare quando,
sulle orme di tanti eroi che ci han preceduti, camminiamo come Enea… in cerca
del tempio venerato dai Segestani? Chissà che non abbiamo a incontrare qualche
nuovo Aceste che spegnerà la nostra sete come fece con Enea e i suoi compagni,
dando loro quel buon vinello di cui si narra? – I1 mio amico sbottò a ridere e
accettò bravamente la sorte, cioè prese pazienza come me.
Tuttavia il sole che
dardeggiava sulle nostre teste ci metteva in condizioni di non poterne più.
Vinti dal caldo finimmo per addormentarci sulle nostre rozze [cavalli deboli e
malandati] che non volevano andare più avanti, quando a un tratto la nostra
guida, levando un grido poderoso, ci risvegliò di botto per indicarsi il tempio
che appariva dinanzi a noi in tutta la sua maestà. – Eccolo, eccolo! – gridammo
anche noi, il tempio venerato da tremila anni, oggetto del culto di tante
generazioni che si sono succedute. Com’è bello, sollevandosi poderoso su tante
rovine che lo circondano! Che meravigliose proporzioni! Che magnifica
costruzione! Spiccammo un salto per andarlo a vedere da vicino. Mi dispiace di
non averne potuto misurare le dimensioni, non avendo strumenti per farlo; ma
sarebbe facile saperlo consultando i libri di archeologia che le riportano.
Quel che posso dire è che enumerammo 36 colonne molto alte situate a una
distanza abbastanza grande le une dalle altre, perfettamente conservate e in
altrettanto perfetto equilibrio. La copertura, se è mai esistita, è crollata;
non rimane alcuna traccia che possa far credere che il tempio sia stato mai
completato, tanto più che non si può distinguere qual era il posto dell’altare
di cui si ignora la divinità a cui era dedicato. I gradini sono troppo alti per
non supporre che ne manchi uno ogni due. Il frontone è sorretto da quattro
colonne a cui corrispondono altre quattro nel lato posteriore. Il tempo che ha rispettato
queste belle colonne ha voluto lasciare traccia delle sue unghie di ferro
perché presentano tutte fori di diversi centimetri, come se fossero state
divorate da innumerevoli insetti, formando uno strato ineguale che permettono
ai profani, come mi sono dimostrato anch’io, di portarne via qualche pezzetto a
ricordo di un ben faticoso pellegrinaggio.
Un tempio di simili
proporzioni fa supporre che ci sia stato lì vicino una popolazione numerosa;
infatti non abbiamo tardato a scoprire il terreno, abbastanza ampio, sul quale
si estendeva la città chiamata Segesta. Pare
che occupasse nella sua cerchia due colline non molto distanti da quella su cui
è costruito il tempio. Chissà quante cose si troverebbero se ci si prendesse la
briga di scavare! A ogni pie’ sospinto si vedono tronconi di colonne, capitelli,
pezzi vari di marmo. Specialmente nell’anfiteatro si trovano le tracce
dell’antico splendore della città scomparsa. Non saprei dire l’impressione che
lasciò in noi il raffrontare queste rovine attestanti l’esistenza di una grande
città e di una numerosa popolazione, col silenzio e la solitudine di luoghi
divenuti oggi deserti senza altri esseri viventi all’infuori di alcune vacche
che pascolavano nei dintorni e un pastore che la Provvidenza sembrò inviarci
per non farci morire di fame, mentre una sete feroce ci tormentava ancor più
vivamente. A dir vero, non ne potevamo proprio più; il mio simpatico compagno
che all’epoca era dotato di un grande appetito, era annichilito in tutta la
forza del termine. Chiamammo quel bravo pastore, il quale mosso dalle nostre
reiterate richieste, si affrettò a mungere una vacca in un vaso enorme che
riempimmo di pane, fornendoci così un pasto il più squisito che avessimo mai
gustato, venuto così a proposito a soddisfare le nostre esigenze estreme.
Nonostante
l’entusiasmo per la bellezza dei luoghi, bisognava pensare al ritorno se
volevamo arrivare ad Alcamo giusto in tempo per andare a tavola col nostro
ospite. Ci lusingavamo che l’onesto abate avesse preso le sue precauzioni per
offrirci un pranzo che ci compensasse della cattiva cena della sera innanzi; ma
purtroppo facevamo i conti senza l’oste, perché il nostro pranzo consistette in
un piatto di maccheroni e un pezzo di carne lessa che ci fu impossibile
masticare, tanto era coriacea e di pessima qualità. Io guardavo l’amico Cesare
con occhi compassionevoli indovinando il tormento che doveva provare, quando ci
fu portato in tavola un pollo gigante. Cesare l’afferra subito per trinciarlo,
sperando di trovare il modo di saziare la fame; ma che delusione mentre con
tutta la sua abilità e, devo dirlo, la sua buona volontà non riusciva a
tagliare un solo pezzo di quello strano volatile. Ci riuscì finalmente, però
quel che aveva resistito al filo del coltello non fu possibile vederlo cedere
alla pressione dei nostri denti di vent’anni. Perché mettemmo invano alla prova
le nostre mascelle: credo che avrebbero spezzato il ferro, ma fu ad essi impossibile
triturare quel gallo che ci aveva di certo salutati col suo canto quando
stavamo in casa. – Povero Cesare, mi dicevo, che ne sarà di te? Morremo
entrambi d’inedia, e così finirà la nostra storia – . Ma no… ecco venire in
tavola una fiscella di ricotta e un vaso di miele per darle più sapore: Butirum et mel comedet ci ripete il
nostro ospite, scusandosi di non aver zucchero da offrirci. Non perdemmo tempo
in considerazioni, e quello fu il piatto forte che ci salvò la vita.
Dirò una parola della
città di Alcamo di cui il nostro abbé Pastori
era governatore? È situata in bella posizione, ma è stata costruita male. Ha
una popolazione di circa 13 mila abitanti: ha molte chiese e diversi conventi
di monache (di clausura) e di suore.
Nella chiesa dei Recolletti (francescani
riformati) c’è un bellissimo quadro di Raffaello (è di un pittore chiamato il «Raffaelto di Sicilia»): una Madonna
in trono con sulle ginocchia il Bambino Gesù e ai lati s. Giuseppe e, per un
anacronismo usuale nei pittori, s. Francesco, mentre uomini e donne stanno
davanti in ginocchio. Peccato che una pittura così bella sia stata collocata in
una località così remota!
(…) il giorno dopo di
buon ora riprendemmo la strada che avevamo seguito venendo per Partinico e
Monreale, da dove scendemmo a Palermo per riposarci, in casa del mio amico
dalle fatiche del viaggio e per rifarci con un buon pranzo dei digiuni e delle
privazioni dei giorni precedenti.
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