L'viv, agosto 2000
Avrò
avuto 15, 16 anni quando lessi I cosacchi di Tolstoj. Di quel romanzo
ricordavo soltanto che le ragazze, quando si ritrovavano tra di loro nei giorni
di festa, per passatempo mangiavano i semi di girasole. Avevo completamente
dimenticato quella lettura della mia giovinezza. Mi è tornata in mente qui
nella terra dei cosacchi ucraini, quando, una domenica pomeriggio, ho visto le
ragazze mangiare i semi di girasole tostati. Me ne hanno offerto una manciata:
li ho assaggiati per la prima volta. Hanno il sapore delle sterminate pianure
assolate e della fertile terra nera. Vanno strusciati in mano con calma,
guardando le mandrie che si muovono appena. Vanno gustati stando chinoni per
terra, con davanti una bacinella piena di mele, in paziente attesa che qualche
improbabile passante sulla strada deserta si fermi a comprare i frutti
dell’orto.
La
vita si muove al rallentatore in Ucraina. Le automobili, che la Fiat ha
costruito sul modello della vecchia 1500, sono rare. La gente si muove a piedi,
lungo i cigli delle strade, per chilometri e chilometri; o con i carri trainati
dai cavalli; o in bicicletta: uno guida e l’altra sta seduto sulla canna; o aspetta
paziente alla fermata dell’autobus, fuori paese. Per chi, come me, è abituato
alla fretta occorre scalare le marce ed entrare nel ritmo calmo e meditativo di
questo Paese, il più grande d’Europa, dopo la Russia, con appena 50 milioni di
abitanti.
Vi
ho passato 15 giorni soltanto, troppo pochi per conoscere un mondo così lontano
dal nostro. Ma la convivenza e il costante colloquio con la gente del posto mi
ha consentito di far breccia nell’animo ucraino, almeno un po’, almeno lo
spero. Mi sono rimaste immagini indelebili scolpite nel cuore, con sentimenti
forti e contrastanti.
Il
giorno stesso del mio arrivo inizio a dare un corso intensivo di spiritualità
nel seminario bizantino ucraino di Rudno. Già dalle prime battute avverto una
diversa sensibilità. La traduttrice, suor Agostina, medico che si sta
specializzando in omeopatia a Roma, mi blocca immediatamente: «Lei ha detto “la
Trinità”, ma io devo tradurre “la Santa Trinità”». Sono appena da poche ore in
questo mondo orientale e già mi rendo conto di apparire un rozzo latino
pragmatico.
Le
liturgie, a cui partecipo ogni giorno, sono un ininterrotto canto melodico
inframmezzato da prostrazioni, segni di croce, incensi... L’iconostasi, con le
sacre immagini dorate, appare preludio di paradiso. Non capisco una parola, ma
lì rigorosamente in piedi dal principio alla fine, immobile tra la gente, i
preti, i diaconi, le monache, col passare delle ore mi sento avvolto da un’aria
di Cielo. Si respira il sacro. All’inizio faccio come una volta le nostre nonne:
dico il rosario o lascio scorrere i grani della ciotky, la corona dei monaci
che mi hanno regalato, con la quale si ripete la preghiera del cuore. Poi,
lentamente, entro nella preghiera liturgica, fino a concelebrare nel rito
bizantino ucraino, con evidente gioia dei presenti, oltre che mia.
La storia, o forse la leggenda, racconta che quando queste popolazioni pensarono di lasciare il paganesimo il principe Volodymyr inviò i suoi messi per il mondo in cerca della religione più adatta. Dopo aver scartato per molteplici motivi ebrei musulmani e latini, la scelta cadde decisamente sui bizantini: il canto, gli ornamenti, gli ori, gli incensi, le icone presentavano una fede dall’insuperabile suggestione estetica.
Le
liturgie - le “Sante Liturgie”! - oltre ad essere belle sono interminabili.
Nelle cappelle di monaci e monache nessuno si muove, ma nelle chiese, con la
gente, è diverso. In chiesa, anche durante la santa liturgia, ognuno si sente a
casa propria, può andare e venire con una spontaneità da noi inusitata. Le file
ai confessionali sono costanti. C’è che prega davanti ad una icona, chi è
prostrato in un angolo qualsiasi della chiesa. Il dialogo cantato
ininterrottamente tra diacono, prete e coro, esclude sistematicamente ogni
altra possibilità di partecipazione al rito da parte della gente che non siano
i segni di croce, anche se questi, da soli, sono capaci di riempire le ore
della celebrazione.
Nella
chiesa dei Bernardini a L’viv mi sono fermato a contemplare una icona vivente:
un uomo maturo, nascosto dietro una colonna, in ginocchio, le mani giunte, gli
occhi chiusi, immobile come una statua. Sembrava fuori del tempo. Mi ricordava
il contadino in ginocchio immortalato da Caravaggio nella tela della Madonna
dei pellegrini. Non ho osato fotografarlo, anche se la tentazione era forte:
sarebbe stato una profanazione.
Nella
cattedrale di san Giorgio una mamma fa cenno ad uno dei preti che distribuisce
la comunione di dare l’Eucaristia - il pezzetto di pane inzuppato nel vino -
alla sua bambina. Avrà poco più di tre anni, la piccola; come tutti i bambini
ha ricevuto la prima comunione il giorno stesso del battesimo. Dopo che il
sacerdote si è abbassato fino alla bambina e l’ha comunicata, la mamma la
prende in braccio e, accarezzandola, comincia con lei un dialogo affettuoso.
Chissà cosa le dirà; le parlerà di Gesù che è venuto in lei... Vedo che la
bambina sorride contenta.
Nel
santuario di Sarvanyzia, la messa è celebrata davanti ad una grande spianata:
la gente raccolta sotto l’ombra degli alberi, è troppo numerosa per poter
essere contenuta dalla chiesa. Quando il prete si fa avanti sul sagrato per
proclamare il vangelo mi si para davanti una scena commovente. I bambini
corrono su attorno a lui, poi gli uomini, le donne, fino a formare un colorito
bouquet di fiori, pronto ad accogliere la rugiada della Parola. Mi sembra
l’immagine di Gesù attorniato dalla folla che vuole vederlo da vicino, che
vuole toccarlo perché da lui emana una forza misteriosa.
Mi
sono lasciato assorbire dal silenzio di una piccola e semplice cappella dei
monaci Studiti, e mi sono fermato nella chiesetta di legno di un paese di
campagna, gomito a gomito con la gente che esprime la sua fede adornando le
parete con i quadri e i drappi più diversi e cantando antiche melodie piene di
malinconia.
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