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La
Chiesa del cielo è infinitamente più popolata di quella della terra.
È
bello visitare il cimitero per rivedere tanti nomi noti e tanti sconosciuti, ai
quali siamo legati strettissimamente.
In
questi giorni ho visitato quelli degli Oblati a Québec e a Richelieu. In quest’ultimo
sono sepolti quasi 800 Oblati. Piccole lapidi con solo nome e nata di nascita e
di morte, poste orizzontali sul terreno e quasi coperte dal grande tappeto d’erba.
Sembrano sparire dalla terra per trasfigurarsi in cielo.
Mi
sembrano particolarmente belle le parole scritte da sant’Eugenio al padre Giuseppe
Alessandro Ciamin. Al di là dello stile dell’epoca fanno amare la
morte come un dono grande di Dio.
Padre Ciamin faceva parte del primo gruppo di missionari che
partirono per il Ceylon, oggi Sri Lanka. Morì à Jaffna, il 10 novembre 1853,
probabilmente in seguito a tubercolosi. Il 2 aprile, sapendo della grave
malattia, sant’Eugenio gli aveva scritto: “Se il Signore volesse chiamarvi a lui, non
sarebbe forse un segno di predestinazione morire in seno alla congregazione?
Non sapremmo ringraziare mai abbastanza il Signore di averci concesso, a
preferenza di altri, una tale grazia. E noi siamo stati costantemente testimoni
di questa meraviglia da quando esiste la congregazione, perché tutti quelli che
sono morti in essa sono morti da predestinati: Dio tanto buono ha voluto far
sentir loro questo privilegio istillando nelle loro anime questo sentimento: tutti
senza eccezioni confessavano di non aver parole per esprimere la felicità che
provavano nel morire da figli della congregazione in cui la misericordia di Dio
li aveva chiamati.
L'ultimo che abbiamo perduto, un giovane
irlandese [Guillaume Winter], che ci
dava le più grandi speranze, non cessava di ripeterlo con santa gioia, come
avevano fatto coloro che l'avevano preceduto nella gloria. Perciò, caro p.
Ciamin, qualunque cosa possa succedere, vivrete e morrete figliolo di Maria
nella congregazione nella quale avete fatto la vostra professione in aeternum”.
In una lunga lettera a sant’Eugenio, il 15 novembre, Padre Semeria,
superiore della missione e futuro vescovo, descrisse le sofferenza del malato e
la sua santa morte. Sant’Eugenio ricevette la lettera il 28 gennaio (le lettere
viaggiavano per mare…). Appena due giorni prima, pensandolo ancora in vita,
aveva scritto a p. Ciamin: “Prendo in fretta questo mezzo foglietto per
manifestarvi i sentimenti della mia tenerezza paterna, continuamente in pena
per le sofferenze che sperimentate trovandovi in queste brutte condizioni di
salute. Il mio cuore condivide i vostri dolori e li avverte molto sensibilmente;
ma, quando penso che vi siete ridotto in questo stato per il servizio di Dio e
per la salvezza delle anime, la mia anima s'innalza alla contemplazione della
ricompensa che ne avrete grazie al vostro sacrificio. Ed io paragono la vostra
sofferenza al martirio. Se il Signore vi chiama a lui, che cosa importa che sia
per mezzo delle frecce dei pagani, o la morte inflitta dai carnefici, o col
lento fuoco della malattia contratta nell'esercizio dell'alto ministero della
predicazione evangelica e della santificazione delle anime? Il martirio della
carità non avrà una minore ricompensa da Dio di quello per la fede. Dunque
coraggio, figliolo caro, avete combattuto bene e la vostra corona è assicurata,
perché la parola del Maestro è infallibile”.
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