Zdenek Cizkovsky, OMI (+ 2004) Casa generalizia, Roma |
Festa dell’Esaltazione della Croce
Ogni giorno migliaia di persone passano su quello sperone di
roccia, si prostrano carponi sotto l’altare e introducono la mano nel foro dove
fu piantata la croce di Cristo. È difficile, ora sommerso da sovrastrutture
secolari, immaginare com’era duemila anni fa quel luogo di supplizio. Erano
tre, quel giorno, inchiodati sul patibolo. Sentirono il centurione che, in
latino, in greco, in ebraico, leggeva la sentenza di condanna di uno di loro
che si era proclamato re dei Giudei. Uno degli altri due rise e con sarcasmo lo
insultò: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi”. L’altro lo riprese,
facendogli notare che loro due meritavano quel supplizio, perché due
delinquenti, ma lui, il Re, non aveva nessuna colpa, era condannato
ingiustamente, era innocente”. Rivolgendosi poi a Gesù gli rese atto della sua
regalità: “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno”. Aveva preso
sul serio l’iscrizione vergata dal procuratore, Ponzio Pilato.
Come faceva a riconoscere in quell’uomo flagellato, coronato
di spine, sfigurato, beffeggiato, un re? Che razza di Messia poteva essere se non
era capace neppure di salvare se stesso? Cosa aveva di regale Gesù, in quel
momento? Eppure il brigante lo tratta davvero da re. Forse per il suo
comportamento. Si prende cura della folla e dei soldati, li scusa e chiede per loro
il perdono. Pensa alla madre e, perché non rimanga sola, l’affida al discepolo
amato. Pur sentendo la sete e l’abbandono di Dio, per nel suo alto grido di
dolore, quell’uomo sulla croce pensa ancora agli altri. Era questo che
impressionava il ladrone crocifisso con lui e subito dopo il centurione che l’aveva
crocifisso.
La tradizione ci ha ricamato sopra. Il Vangelo arabo dell’infanzia,
dà un nome ai due banditi, Tito il buono (il Vangelo di Nicodemo lo chiama
invece Disma e la tradizione ortodossa Rakh) e Dumaco il cattivo. Briganti nati,
avrebbero assaltato la santa Famiglia durante la sua fuga in Egitto, ma Tito si
era commosso a vedere il bambino e lo difende da Dumaco.
Ma lasciamo le storie fantasiose e torniamo a quel crudo
momento della crocifissione. “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo
regno”. Lo chiama per nome, come non aveva fatto nessun altro dei molti
personaggi quel giorno presenti al processo e sul luogo del patibolo. Lo chiama
per nome, segno di umanità, di affetto, di vicinanza. E insieme gli parla del
suo regno, riconoscendone la dignità, la capacità di riscatto e di salvezza.
Gli giunge così la più bella delle promesse fatte da Gesù
nel Vangelo: “Oggi sarai con me in paradiso”. Neanche Gesù entra da solo in
paradiso…
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