mercoledì 17 dicembre 2014

Nei “dialoghi a sant’Eustachio” la scoperta di Dio nel dolore

«Dove sei?». È di Dio questa domanda, che continua a rivolgere all’uomo fin dalle origini e non s stanca di cercarlo. Ed è anche la nostra domanda, rivolta a Dio, che non ci stanchiamo di cercare da quando alle origini l’abbiamo perduto.
Quante volte glielo chiediamo, soprattutto nei momenti più difficili: «Dove sei?».
Questa domanda si levò in maniera drammatica nel mezzo del Novecento. Una sera, al ritorno dai lavori forzati, gli internati di un lager nazista scoprono sul piazzale interno tre impiccati, due adulti e un bambino. Le guardie costringono i prigionieri a guardare in faccia gli impiccati, come monito contro ogni velleità di ribellione. I due adulti sono già morti, il ragazzo è ancora vivo, la lingua rossa gli fuoriesce dalle labbra e gli occhi non ancora spenti. Ecco, allora, la terribile domanda di uno dei prigionieri: «Dov'è il buon Dio? Dov'è?». È la scena e l’interrogativo che Elia Wiesel evoca nel suo romanzo La notte.
La stessa domanda se l’è ripetuta Benedetto XVI ad Auschwitz: «Dov'era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Perché ha potuto tollerare tutto questo?».
La condizione dei prigionieri era di sentirsi «abbandonati anche da Dio» (cf. Monica Dal Maso, Pensare Dio dopo Auschwitz? Il pensiero ebraico di fronte alla Shoah, Edizioni Messaggero, Padova 2007, p. 23). Da allora gli ebrei stessi sono i primi a chiedersi «dov'era mentre il suo popolo veniva ammazzato nelle camere a gas?» (p. 43). «Dio ha taciuto, non è intervenuto, non si è fatto sentire» (p. 64). Se c'è Auschwitz, non può esserci Dio (p. 107). La conclusione sconfortante per tanti è: «ad Auschwitz, anche Dio è morto, anche Lui è passato per il camino» (p. 121).
La domanda non si è chiusa con Auschwitz. Continuiamo a ripeterla davanti alle stragi quotidiani di cui la follia umana è capace, alle guerre, alle ingiustizie, agli attentati che uccidono vittime innocenti. Ma anche davanti alla malattia e alla morte di una persona cara, alle disgrazie che possono capitare in famiglia.

Può sembrare strano che sia stato questo il tema della conversazione di questa sera durante “I dialoghi a sant’Eustachio”. Proprio di questo dovevo parlare la vigilia di Natale, in dialogo con il medico Adelaide Ricciotti?
Purtroppo anche la vigilia di Natale i mariti uccidono le moglie, le madri e figli, 140 bambini vengono trucidati in Pakistan, le persone muoiono in ospedale e di nuovo sale il grido drammatico: «Dov’è Dio?».
Da ottobre con “I dialoghi a sant’Eustachio” mi sono messo alla ricerca dei luoghi dove Dio ci aspetta per incontrarsi con noi, dove noi possiamo incontrarci con lui. Anche nelle grandi tragedie dell’umanità, anche nelle nostre piccole contrarietà di ogni giorno possiamo incontrare Dio? Anche lì ci dà appuntamento e ci aspetta per l’incontro? Sembra proprio impossibile.
Sempre nel romanzo autobiografico La notte appena citato, l’autore ebreo, che si trovava tra i prigionieri quando, vedendo gli impiccati, aveva sentito la domanda: «Dov'è il buon Dio? Dov'è?», narra : «Io sentivo in me una voce che rispondeva: "Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca!"».
Eccola la risposta cristiana. Dov’è Dio? È sceso sulla terra per condividere il nostro grido, la nostra paura, i nostri “perché”, la solitudine, le tragedie, i tradimenti, le percosse, la morte. Elia Wiesel vede Dio sulla forca, immedesimato con gli impiccati, perché Dio realmente è sceso sulla terra, non soltanto per essere accanto a noi, ma per essere impiccato lui stesso, per immedesimarsi con noie condividere le nostre tragedie , i nostri dolori, la nostra morte. Dov’è Dio? Sulla croce.
Un giorno alcuni greci andarono ad Filippo e gli chiesero di vedere Gesù. Filippo si mise d’accordo con Andrea e insieme si rivolsero a Gesù: “Vogliono vederti”. Inaspettatamente Gesù, per farsi conoscere, diede loro un appuntamento un po’ particolare: ci vedremo sul Calvario, là dove il chicco di grano cadrà in terra e morirà, unico modo perché porti frutto: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Il racconto evangelico si conclude con il commento di Giovanni: «Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (cf. Gv 12, 20-33).
Anch’io, se qualcuno venisse da me e mi domandasse di vedere Gesù, di incontrarlo, gli indicherei il Crocifisso, il segno del cristianesimo. Nei primi secoli i cristiani non hanno osato raffigurare Gesù in croce, perché immagine troppo crudele, segno di maledizione e di follia. Soltanto Paolo, davanti ai Galati, ha avuto il coraggio di mostrare Cristo e Cristo crocifisso.
Paradossalmente il dolore, nei suoi mille volti, può diventare il luogo d’incontro con Dio.
Come non ricordare la meditazione di Chiara Lubich?:

T’ho trovato in tanti luoghi, Signore!
T’ho sentito palpitare
nel silenzio altissimo
d’una chiesetta alpina,
nella penombra del tabernacolo
di una cattedrale vuota,
nel respiro unanime
d’una folla che ti ama e riempie
le arcate della tua chiesa
di canti e di amore.
T’ho trovato nella gioia.
Ti ho parlato
al di là del firmamento stellato,
mentre a sera, in silenzio,
tornavo dal lavoro a casa.
Ti cerco e spesso ti trovo.
Ma dove sempre ti trovo
è nel dolore.
Un dolore, un qualsiasi dolore,
è come il suono della campanella
che chiama la sposa di Dio alla preghiera. (…)

Sei Tu che mi vieni a visitare.
Sono io che ti rispondo:
“Eccomi Signore, Te voglio, Te ho voluto”.
E in quest’incontro
l’anima mia non sente il suo dolore,
ma è come inebriata dal tuo amore:
soffusa di Te, impregnata di Te:
io in Te, Tu in me,
affinché siamo uno. (…)


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