Con sorpresa e meraviglia leggo sull’ultimo
volume di “Claretianum” l’inaspettata recensione del mio libro “I detti di apa
Pafnunzio”. Il Professore Maurizio Bevilacqua, a cui va tutta la mia
gratitudine, ha proposto una lettura del libro che denota una comprensione del
tutto appropriata di apa Pafnunzio.
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Come il grande Antonio e
tanti altri nel corso della storia, Pafnunzio è condotto nel deserto dalla voce
misteriosa, ma realissima, di Gesù avvertita nella proclamazione del Vangelo.
Il deserto è luogo privilegiato per l'ascesi, per far morire l'uomo vecchio e
far sorgere il nuovo, e l'eremita ne ama la sconfinata solitudine e il silenzio
profondo.
L’Autore presenta il
cammino percorso dall'anacoreta centrato sulla gloria da riconoscere a Dio:
gloria al Padre (pp. 80-32) e al Figlio (pp. 109-110) e allo Spirito Santo
(pp.123-124). Tale cammino si chiarisce progressivamente, lasciando cadere la
pretesa di fare qualcosa per Dio, addirittura di stupirlo, per giungere ad
offrire a Dio la propria povertà e lasciare che agisca Lui. È così che, in un
racconto di Pafnunzio ai suoi compagni, il quarto Magio, attardatosi nei propri
peccati e giunto a Gerusalemme solo in tempo per vedere Gesù confitto alla
croce, si sente dire da Questi che proprio il dono dei suoi peccati era quello
che aveva atteso per una vita: «Ora sai perché sono venuto sulla terra» (p. 112).
Come buon anacoreta, Pafnunzio aspira alla santità ed è convinto che in ogni
situazione è possibile raggiungerla; con il trascorrere del tempo, però, giunge
a comprendere «che la santità non si conquista, ma la si accoglie come un dono»
(p. 118).
I lunghi anni nel deserto
insegnano ad assumere le debolezze e i fallimenti e a riconoscere la
misericordia di Dio: «Ormai apa Pafnunzio lo sapeva: non si sarebbe mai
salvato, ne era incapace. La perfezione consisteva nell'essere salvato. "Tu
inizi - disse apa Pafnunzio - dove io m'arresto"» (p. 129).
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È con questa prospettiva
che si può affrontare anche l'ultima e la più grande della inquietudini della vita.
La morte può essere un pensiero lontano; una realtà incombente, ma non
imminente: «Perché, invece di attendere la morte, ... non vivere come se
l'incontro avvenisse adesso?» (p. 26). È diverso, però, quando essa si profila
innanzi come passaggio certo ed ormai prossimo: «"Matanathà, vieni Signore
Gesù" ... Pregava con ardore, ma nello stesso tempo aveva timore di quel
ritorno o, più semplicemente, aveva paura di morire» (p. 111). È raccogliendo
la vita, con le piccole relazioni che ha costruito, e ponendo tutto innanzi al
suo Signore che Pafnunzio supera la paura. La sua morte sarà lo specchio del
cammino compiuto: «Da giorni gli stavano attorno, vegliandolo amorevolmente, fratelli
veri come sempre lo erano stati. A loro, con volto disteso, irradiando luce e
pace, apa Pafnunzio rivolse le sue ultime parole» (p. 138).
Auguriamo al lettore che
il viaggio di Pafnunzio lo possa aiutare ad attraversare i propri deserti.
Questa mattina, durante la lezione di storia della
vita consacrata, ho letto una pagina dei Detti a una ottantina di novizi e
novizie dei Castelli Romani. Anche loro ne sono rimasti incantati.
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