giovedì 9 ottobre 2014

I detti di apa Pafnunzio letti dal professore


Con sorpresa e meraviglia leggo sull’ultimo volume di “Claretianum” l’inaspettata recensione del mio libro “I detti di apa Pafnunzio”. Il Professore Maurizio Bevilacqua, a cui va tutta la mia gratitudine, ha proposto una lettura del libro che denota una comprensione del tutto appropriata di apa Pafnunzio.

Apa Pafnunzio ed altri sei anacoreti vivono in un deserto che non è dato localizzare, in un tempo impossibile da precisare. A questo immaginario Padre del deserto Fabio Ciardi affida la propria riflessione sulla vita consacrata - non solo quella eremitica - e, più in generale, sulla vita e sulla fede.
Come il grande Antonio e tanti altri nel corso della storia, Pafnunzio è condotto nel deserto dalla voce misteriosa, ma realissima, di Gesù avvertita nella proclamazione del Vangelo. Il deserto è luogo privilegiato per l'ascesi, per far morire l'uomo vecchio e far sorgere il nuovo, e l'eremita ne ama la sconfinata solitudine e il silenzio profondo.
L’Autore presenta il cammino percorso dall'anacoreta centrato sulla gloria da riconoscere a Dio: gloria al Padre (pp. 80-32) e al Figlio (pp. 109-110) e allo Spirito Santo (pp.123-124). Tale cammino si chiarisce progressivamente, lasciando cadere la pretesa di fare qualcosa per Dio, addirittura di stupirlo, per giungere ad offrire a Dio la propria povertà e lasciare che agisca Lui. È così che, in un racconto di Pafnunzio ai suoi compagni, il quarto Magio, attardatosi nei propri peccati e giunto a Gerusalemme solo in tempo per vedere Gesù confitto alla croce, si sente dire da Questi che proprio il dono dei suoi peccati era quello che aveva atteso per una vita: «Ora sai perché sono venuto sulla terra» (p. 112). Come buon anacoreta, Pafnunzio aspira alla santità ed è convinto che in ogni situazione è possibile raggiungerla; con il trascorrere del tempo, però, giunge a comprendere «che la santità non si conquista, ma la si accoglie come un dono» (p. 118).
I lunghi anni nel deserto insegnano ad assumere le debolezze e i fallimenti e a riconoscere la misericordia di Dio: «Ormai apa Pafnunzio lo sapeva: non si sarebbe mai salvato, ne era incapace. La perfezione consisteva nell'essere salvato. "Tu inizi - disse apa Pafnunzio - dove io m'arresto"» (p. 129).
Un altro pensiero attraversa la mente del nostro eremita; egli si chiede a chi giovi la sua vita di «solitario ignoto, nascosto in una grotta lontana, in un deserto lontano» (p. 135). La domanda che Fabio Ciardi mette sulle sue labbra non riguarda, però, solo il significato della vita erémitica. L’inquietudine di Pafnunzio circa il senso della sua esistenza, nota solo ai pochi compagni della laura nel deserto e a qualche carovaniere di passaggio, non è molto dissimile da quella di tanti di noi circa una quotidianità monotona spesa in una piccola cerchia di conoscenze - fosse pure nel deserto di una grande città - con la certezza che non si compiranno mai gesta memorabili e che la nostra esistenza sarà ignorata dal mondo. È nella comunione dei santi che l'Autore fa trovare una risposta al suo immaginario apa, partendo proprio dalla tradizione monastica. Come insegnava Basilio, «nessuno basta a ricevere tutti i carismi spirituali e, nella vita comunitaria, il carisma proprio di ciascuno diviene comune a tutti quelli che vivono con lui» (Regulae fusius tractatae, interrogatio VII, in PG 31,932). Questo, nella redenzione in Cristo, si estende all'intera comunità dei figli di Dio. Il monaco, perciò, è colui che «separato da tutti è a tutti unito», secondo il detto di Evagrio Pontico (De oratione, 124, in PG 79, 1193).
È con questa prospettiva che si può affrontare anche l'ultima e la più grande della inquietudini della vita. La morte può essere un pensiero lontano; una realtà incombente, ma non imminente: «Perché, invece di attendere la morte, ... non vivere come se l'incontro avvenisse adesso?» (p. 26). È diverso, però, quando essa si profila innanzi come passaggio certo ed ormai prossimo: «"Matanathà, vieni Signore Gesù" ... Pregava con ardore, ma nello stesso tempo aveva timore di quel ritorno o, più semplicemente, aveva paura di morire» (p. 111). È raccogliendo la vita, con le piccole relazioni che ha costruito, e ponendo tutto innanzi al suo Signore che Pafnunzio supera la paura. La sua morte sarà lo specchio del cammino compiuto: «Da giorni gli stavano attorno, vegliandolo amorevolmente, fratelli veri come sempre lo erano stati. A loro, con volto disteso, irradiando luce e pace, apa Pafnunzio rivolse le sue ultime parole» (p. 138).
Auguriamo al lettore che il viaggio di Pafnunzio lo possa aiutare ad attraversare i propri deserti.

Questa mattina, durante la lezione di storia della vita consacrata, ho letto una pagina dei Detti a una ottantina di novizi e novizie dei Castelli Romani. Anche loro ne sono rimasti incantati.


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