Il caldo del primo meriggio stava
ormai scemando e presto si sarebbe levata la brezza leggera, preludio della
sera. Era il tempo di uscire di cella per recarsi alla collatio con i fratelli. Apa Pafnunzio attendeva quel momento con
impazienza. Avrebbe potuto ascoltare la parola sempre piena d’unzione dell’egumeno,
la condivisione dei frutti della preghiera degli altri cinque monaci, e lui
stesso, settimo e ultimo della laura, avrebbe donato la propria esperienza.
Quel giorno era particolarmente
felice e radioso; aveva compreso che agli occhi di Dio egli era buono e bello e
che, nonostante le sue debolezze, la parola che Dio aveva pronunciato creandolo
si sarebbe eternata in pienezza. Era quanto aveva pensato di donare ai propri
fratelli.Apa Agatone iniziò come sempre
leggendo e commentando la Parola di Dio. Non sembrava particolarmente ispirato,
quella sera. Era diventato troppo vecchio? Perché da alcuni giorni si ripeteva
continuamente? Apa Serapione se ne stava serio, come appartato e quando gli
venne dato la parola rimase in silenzio, non aveva niente da dire. È così che
si costruisce la fraternità?
Apa Epifanio ebbe da osservare che gli ospiti
venivano accolti con troppo frequenza, inquinando la solitudine monastica. Non si
ricordava il detto gesuano: “Chi vede il fratello, vede il Signore”? Apa
Teodoro sorrideva e annuiva, ma era evidente che aveva la mente altrove, e
quindi anche il cuore. Non sapeva più vigilare su se stesso? Apa Meghezio disse
belle parole, ma era così trasandato nel vestito e gesticolata in maniera
sgraziata. Anche la povertà avrebbe dovuto avere la sua bellezza. Apa Filagrio,
sempre così saggio, disse parole sconsiderate che era meglio dimenticare
subito.
Ognuno dei fratelli mostrava le
proprie debolezze e miserie. Apa Pafnunzio ne fu amareggiato e interiormente mosse
il proprio giudizio di disapprovazione. Non si sentì neppure di condividere
quanto aveva appreso nella meditazione del mattino e che gli aveva riempito l’animo
di tanta gioia. Non valeva la pena donare una scoperta così bella a persone che
non avrebbero saputo apprezzarla.
Apa Agatone infine sciolse l’adunanza.
Tutti si stavano alzarono in silenzio per tornare nelle proprie grotte.
Fu allora che un bagliore di luce s’accese
nel cuore di apa Pafnunzio. In un baleno comprese, e con la mano fece segno di
restare. Tutti lo guardano con sguardo meravigliato e interrogativo. “Chiedo la
parola, apa Agatone”. “Hai la parola”, gli rispose apa Agatone.
“Questa sera – disse apa Pafnunzio –
vi ho guardati con questi miei occhi annebbiati e di ognuno ho visto povertà e mancanze.
Ma ora vi guardo con occhio puro, come Dio vi guarda, con i suoi occhi di luce e
d’amore, e vedo in voi la parola che egli ha pronunciato dall’inizio dei secoli
quando vi ha pensato ad uno ad uno, e che si compirà nei secoli dei secoli.
Quella parola è appena seminata nei nostri corpi, ha appena iniziato a
germinare, ma crescerà e porterà frutto, non importa se qui o nei cieli
avvenire. Noi non siamo come ci vediamo, ma come Dio ci vede, ed egli ha fatto bene ogni cosa. Il paradiso sarà
contemplare, pienamente attuate, le parole di vita di ognuno di noi. Sarà una
meraviglia, una sorpresa, sarà stupore. Non avremmo mai immaginato tanta bellezza
nell’altro, in ognuno di noi. Perché non iniziamo a guardarci già in terra come
ci guarderemo in cielo? Perché non ci aiutiamo a diventare quello che siamo
agli occhi di Dio?”.
Era ormai notte. Eppure i sette
probatissimi monaci di quell’ermo che confina co’ Saraceni, non si muovevano
più dal loro posto. Si guardavano in silenzio, beati di gioia.
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