Oggi ho visitato la basilica di San Pietro alla ricerca di una testimonianza della risurrezione. Nei quattro pilastri che sostengono la cupola vi sono le statue di quattro testimoni della passione, ma non ricordavo di aver mai visto qualcosa che parlasse di risurrezione.
L’ho trovato su uno dei tre altari nel transetto di sinistra: L’incredulità di S. Tommaso di Vincenzo Camuccini, pittore neoclassico che all’inizio del 1800 Pio VII nominò Direttore generale della Fabbrica di san Pietro e Sovraintendente dei Musei vaticani.
Ma perché il mosaico è intitolato l’incredulità e non la fede di san Tommaso?
La sua è la più bella espressione di fede: “Signore mio, mio Dio”.
Avrà veramente messo il dito nel foro dei chiodi e la mano nel costato aperto dalla lancia, come aveva detto per fare lo scettico? Non credo proprio. Quando si è visto davanti Gesù ne sarà stato subito conquistato (non è questa la fede?).
Beato chi è conquistato da Gesù – chi crede in lui – anche senza vedere: una beatitudine rivolta alla Chiesa, alle generazioni future di cristiani.
Ma sarà poi vero che si crede senza vedere? Proprio vero che non l’abbiamo mai visto?
Ripenso sempre alla prima lettera di Giovanni, quando si legge: “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi…”. Chi scrive non è forse più l’apostolo Giovanni, che a quell’epoca poteva essere già morto. La sua comunità, che scrive la lettera in nome suo è composta da persone giovani, che non hanno mai visto Gesù. Eppure il discepolo prediletto parlava loro di Gesù in un modo tale che essi avevano l’impressione di averto davanti, Gesù, di sentirlo parlare, di vederlo! Chissà come era vivo il racconto di Giovanni, come riusciva a trasmettere la sua testimonianza! Al punto che la sua comunità l’aveva fatta propria, ed era ora capace di comunicarla alla generazione successiva. È così, che di generazione in generazione il Vangelo rimane vivo e Gesù continua a mostrarsi: la sentiamo, lo vediamo… e non possiamo non dirgli: “Signore mio e mio Dio”.
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