Una quarantina d’anni fa, nella basilica di San Pietro a Roma stracolma di gente, leggevo la Passione, assieme a Rino e a Celso, dando voce al narratore. Il papa Paolo VI era tra coloro che ascoltavano. Allora fu per me, giovane diacono, un momento emozionante.
Non lo è stato meno oggi, quando ho proclamato ancora una volta quel racconto nella nostra cappella della casa generalizia, davanti a un pugno di fedeli.
La narrazione di Marco mostra l’assoluta solitudine di Gesù: Giuda lo tradisce, i discepoli lo abbandonano in mani alle guardie e fuggono, il ragazzo col lenzuolo addosso fugge via nudo, Pietro lo rinnega, il sinedrio lo consegna a Pilato, Pilato ai soldati: tutti se ne sbarazzano. I servi dei sacerdoti lo schiaffeggiano, i soldati si fanno beffa di lui, il popolo grida che sia crocifisso, chi passa sotto la croce lo deride e i crocifissi con lui lo insultano.
Nel Vangelo di Marco non c’è, come in Matteo, una moglie di Pilato che è turbata; non c’è, come in Luca, un buon ladrone che prende le sue difese; non c’è, come in Giovanni, la madre e il discepolo prediletto che gli sono vicini. Ci sono le donne, sì, ma appaiono solo dopo la morte e osservano “da lontano”. Vicino non c’è nessuno. Non c’è neppure il Padre, che lo lascia nella più profonda solitudine: “Perché mi hai abbandonato?”.
Uno dei membri della nostra comunità è in ospedale da due settimane, ha subito una difficile operazione, ma non è solo a soffrire, andiamo a trovarlo ogni giorno. La cosa più terribile non è il dolore in sé, ma doverlo portare da soli. L’inferno sarà proprio questo: non tanto il soffrire, ma non aver nessuno con cui condividere, nessuno che ti è accanto per condividere.
Gesù ha provato questa solitudine perché noi non fossimo più soli.
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