Eccoci dunque al passaggio
dall’io al noi, un tema molto diffuso, un ulteriore segno dei tempi. Basterà
far riferimento a una intervista televisiva a Papa Francesco, il 10 gennaio
2021. Parlando delle situazioni di crisi presenti in ogni Paese sollecitava chi
ha compiti di responsabilità politica ad anteporre la logica del bene comune
alla promozione personale, il “noi” all’“io”. «La classe dirigenziale –
spiegava il Papa – ha il diritto di avere punti di vista diversi e anche di
avere la lotta politica. È un diritto: il diritto di imporre la propria
politica. Ma in questo tempo si deve giocare per l’unità, sempre. Non c’è il
diritto di allontanarsi dall’unità. (…) Ma se i politici sottolineano più
l’interesse personale all’interesse comune, rovinano le cose». In definitiva
«tutta la classe dirigenziale non ha diritto di dire “io”… deve dire “noi” e
cercare una unità di fronte alla crisi». Allargava poi gli orizzonti: «un
politico, un pastore un cristiano, un cattolico anche un vescovo, un sacerdote,
che non ha la capacità di dire “noi” invece di “io” non è all’altezza della
situazione».
Dobbiamo prendere atto che,
a partire dal Concilio, la teologia della comunità e il cammino per la sua
attuazione si è intensificato. Lentamente, oltre alla difficoltà
dell’attuazione, è subentrato un certo rigetto di questo progetto, forse per un
equivoco, quasi pensando che la vita di piena donazione comunitaria – che è
sempre un “morire” – si esaurisse in una fase kenotica, senza portare alla
piena realizzazione di sé. Oggi la proposta di Giovanni Paolo II è “aggiornata”
dal magistero di Papa Francesco che preferisce parlare di comunità poliedrica.
Personalmente penso che il
progetto comunitario sia rimasto incompiuto perché ci è fermati al passaggio
dall’io al noi, senza poi compiere il successivo passaggio, dal noi all’io. Eppure
Gesù insegna: dà la vita, ma «per poi riprenderla di nuovo» (Gv 10, 17). Il
lui c’è il passaggio, se così possiamo dire, dall’io al noi, che consiste nel
dare la vita per il suo gregge. Ma non si ferma lì. Una volta donata la vita –
ed è un passaggio di morte – la riprende di nuovo e in maniera nuova: è il
Risorto, diverso da quello che era prima di aver vissuto il mistero pasquale.
Come per Gesù, per ognuno di
noi dopo il passaggio dall’io al noi c’è l’ulteriore passaggio all’io: «chi
perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16, 25). Non si
tratta di un semplice ritorno al precedente io. Il donarsi interamente agli
altri nella vita comunitaria, il condividere con gli altri e il ricevere dagli
altri, produce un arricchimento dell’io. Quando entra nella comunità l’io ha un
certo spessore, dopo, quando torna in sé, trova una nuova pienezza sia perché
il dare l’ha maturato, sia perché è accresciuto dal dono degli altri.
Ma c’è qualcosa di ancora
più profondo. Quando la comunità è veramente tale, in essa inabita Cristo
Signore che tutti trasforma in sé. Ricordiamo le parole di Perfectae
caritatis: «Con l’amore di Dio diffuso nei cuori per mezzo dello Spirito
Santo (cfr. Rm 5,5), la comunità come una famiglia unita nel nome del
Signore gode della sua presenza (cfr. Mt 18,20)». La comunità è la
comunità del Risorto, vive della sua presenza. In essa ogni membro è trasformato
da questa presenza, è trasformato in Cristo Risorto, che diventa il suo vero
io. Non che Gesù si sostituisca all’io della persona, piuttosto si adatta alla
persona, vive in lei e fa fiore in lei la “parola” da Dio pronunciata da tutta
l’eternità, la sua identità più vera.
Il futuro di ogni comunità dipenderà
dalla capacità di un coinvolgimento reciproco, attivo, voluto, di tutti i
membri in questo passaggio dall’io al noi all’io trasfigurato dal e nel
Risorto.
Davvero bello. Ispirato direi ... Piace anche a noi antropologi....
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