Ho tenuto finalmente la mia conferenza al Claretianum, terminando con il passaggio dal noi all’io, prendendo come icona il ritorno in Galilea dei discepoli dopo la resurrezione.
Il Risorto attende i suoi
discepoli in Galilea perché vuole dare loro l’opportunità di ricominciare dopo
il fallimento: lo hanno rinnegato, tradito, abbandonato… Li attende per un
incontro che segni un nuovo inizio. Non come se nulla fosse accaduto, ma
proprio perché tutto è accaduto. È un ricominciare nella consapevolezza della
propria fragilità, senza più presunzioni (“Darò la mia vita per te”: Gv
13, 37), fatti nuovi dalla misericordia, provocati dall’amore (“Mi ami tu?”: Gv
21, 15ss).
L’io maturato nell’esperienza
con il Signore, l’io ritrovato dopo essersi lasciati coinvolgere
dall’esperienza della sequela fatta insieme al “noi” dei Dodici, non è un super
io, un io potenziato, ma un io umile, che pone la fiducia nell’amore
misericordioso di Dio e per questo è capace di misericordia.
In quell’incontro sul lago,
dopo aver radunato i suoi attorno alla tavola, Gesù si rivolge direttamente a
Pietro e lo interpella in prima persona, chiamandolo per “nome e cognome”, con
grande solennità: “Simone di Giovanni!”. Con la stessa serietà l’aveva chiamato
quando l’aveva incontrato la prima volta, all’inizio del Vangelo (Gv 1,
42). Questa seconda chiamata è in continuità con la prima, ma è anche diversa:
il primo io di Simone non è più lo stesso dopo il passaggio attraverso l’esperienza
del “noi” che lo ha coinvolto nell’intera vicenda del Maestro.
Con la solennità dell’appello,
“Simone di Giovanni!”, Gesù si rivolge proprio a lui, ritaglia la sua persona
dagli altri sei discepoli seduti alla medesima mensa e la pone direttamente
davanti a sé, a tu per tu. Pietro non si perde in una comunità anonima e
spersonalizzata, ma è chiamato a ritrovare la propria identità in una nuova pienezza.
Gesù lo interpella perché – davanti a tutti, e prima di tutto davanti a sé
stesso – affermi in maniera nuova la sua scelta: “Mi ami?”. È una domanda
seria, ripetuta per ben tre volte, che cade su un triplice tradimento con il
quale Pietro ha affermato solennemente: “Amo me più di te e per difendere la
mia vita rinnego la tua”.
Gesù non si lascia
scoraggiare dal tradimento, crede nella prima chiamata ed offre una nuova
possibilità: “Adesso, dopo tutto quanto è accaduto, mi ami di più?”. Il “di
più” della richiesta di Gesù si rapporta esplicitamente agli altri discepoli
presenti: “più di costoro”, ma forse allude anche ad un di più di intensità
rispetto al passato. È un amore maturo, che fiorisce dal proprio nulla, ora
riempito dall’amore misericordioso del Signore che ha assunto e consumato in sé
il nulla di Pietro.
Al primo incontro gli aveva
cambiato il nome in “Cefa”, Pietro, pietra. Vedeva il futuro dell’apostolo,
fondamento della Chiesa. Ma non poteva ancora affidargli il suo gregge; prima
doveva essere temperato dal dolore, dalla prova, perché dal peccato e
dall’amaro pianto (cf. Lc 22, 62) fiorisse un nuovo amore: «Tu sai che ti
voglio bene». Ecco l’umanizzazione, la persona pienamente realizzata. La
“parola” pronunciata da tutta l’eternità, l’identità di Simone, è ora giunta a
compimento: nasce l’uomo nuovo. Soltanto adesso il Risorto può dirgli: «Pasci i
miei agnelli… pasci le mie pecore» (Gv 21, 15-17). Adesso la missione di
Pietro diventa efficace perché a compierla è Cristo stesso identificato con
lui.
La domanda di Gesù non può
essere evasa, non consente alibi, tanto è personale e diretta, senza contorni.
Quando Pietro gli domanda del discepolo amato, Gesù non accetta di rispondere e
lo riporta alla responsabilità personale: Non gli dice soltanto “seguimi”, come
la prima volta, ma “tu, seguimi”: “tu”, unicità irrepetibile e necessaria,
carica di responsabilità. Inizia una vita nuova, un coinvolgimento pieno e
totale nel progetto del Signore Risorto.
Il Risorto lungo i secoli continua a ripetere la stessa parola, rivolge ad ognuno di noi la stessa domanda; non in maniera astratta e generica, ma dopo averci interpellati ad uno ad uno, personalmente, premettendo nome e cognome: “Fabio Ciardi, mi ami?”. Non posso guardarmi attorno per vedere a chi si sta rivolgendo. La domanda ha nome e cognome, non ci sono alibi, possibilità di omonimie. Inevitabilmente vengono alla mente i tradimenti, i rinnegamenti, i fallimenti. Il Risorto li conosce bene. Nonostante tutto continua a chiedere se lo amiamo. Ha ancora fiducia, offre veramente la possibilità di ricominciare in novità di vita. Quante volte chiederà: “Mi ami tu? Mi vuoi bene?”. Una in più del tradimento, per dare l’opportunità che l’ultima nostra parola sia: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». È la metamorfosi dell’io: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 19-20). Occorre essere una cosa sola con lui perché egli affidi una missione, in modo che sia lui a compierla.
La persona pienamente
umanizzata, realizzata nel suo disegno, può adesso operare anche da sola,
perché non è più sola, ma sempre espressione della comunità con la quale ha
vissuto e con la quale è maturata. Non è più sola perché in lei vive il
Risorto. L’io conosce una nuova stagione, si è fatto più umile, sincero, la sua
azione acquista tratti materni e insieme paterni, senza maternalismi o
paternalismi, nella consapevolezza che ad agire non è più lui, ma Cristo che
vive in lui, e di cui è semplice strumento. Poiché rimane al suo posto, quello
del servizio, acquista la capacità di “pascere”, di edificare, senza velleità
di voler apparire, senza assumere posizioni di comando, senza dittature
culturali, senza le interferenze dell’orgoglio e del prestigio, nel rispetto e
apprezzamento della diversità, nella valorizzazione della ricchezza dell’altro.
È un processo in costante
divenire, mai compiuto, non necessariamente lineare, dove si continuano a
sperimentare fasi precedenti, ripartendo sempre da dove si è iniziato, ma con
intensità diversa, abissi ancora più abissali, vette ancora più eccelse,
affidandosi docilmente alla conduzione dello Spirito.
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