Quanti sono i santi in cielo?
Quanti bastano per non essere
e non sentirsi mai soli.
Ogni mese, da due anni, sulla rivista “Città Nuova”,
pubblico una rubrica di mezza pagina appena, intitolata “In poche parole”. Le
parole che ho scritto quest’anno sono: Armonia, Compassione, Ardore, Preghiera,
Condivisione, Accompagnamento, Essenziale, Mitezza, Effimero, Perseveranza, Animare.
Dopo che sono apparse sulla rivista le pubblico su questo
mio blog. Il resoconto automatico delle statistiche mi dice che i blog che
riportano queste parole sono i meno letti. Penso che sarà altrettanto per la
rivista Città Nuova: la rubrica meno letta. Mi domando se vale la pena
continuare.
Comunque per dicembre devo scrivere l’ultima parola dell’anno
(l’ultima in assoluto?). Ho pensato a Attesa. Potrebbe essere, visto che
a dicembre saremo nel periodo liturgico dell’Avvento, il tempo per eccellenza
dell’attesa.
L’attesa
non consente distrazione, ossia l’essere attratti altrove. Uno dei miei soliti
aneddoti spiega bene che l’attesa richiede concentrazione, vigilanza. Ero in “attesa”
del treno. Stazione secondaria di una cittadina in Francia. Mattinata tiepida,
con un sole splendente in un cielo d’un azzurro terso. Mi siedo sulla panchina
del binario dove deve sostare il treno. Pochi i passeggeri che aspettano assieme
a me. Mi immergo nella lettura di un romanzo classico. Ad un certo momento alzo
lo sguardo e mi ritrovo solo, senza più nessuno attorno. Guardo l’orario: il
treno dovrebbe essere arrivato, fermato e ripartito da una ventina di minuti.
Non me ne sono accorto. Vado in biglietteria per regolare il biglietto e mi
scuso dicendo che mi sono distratto. “No – mi dice il bigliettaio – lei era
semplicemente altrove”. Era vero, non mi trovano al luogo dell’appuntamento, il
romanzo mi aveva portato lontano, in una piazza di Milano nel 1600. Come non
ricordare la pagina evangelica delle vergini saggie e delle vergine stolte. Queste
ultime all’arrivo dello sposo sono altrove, sono a comprare l’olio per le lampade…
e perdono il treno!
Quante
volte Gesù invita a vigilare, ad essere pronti, svegli, perché egli arriverà
all’improvviso. La sposa del Cantico dei Cantici ci confida che anche quando
dorme il suo cuore è sveglio e al minimo rumore riconosce il bussare discreto del
suo diletto (cf. 5. 2). L’amore veglia, l’amore è sempre in attesa. Un’amica,
alla quale avevo chiesto se stava aspettando, mi rispose, “No, amo, aspettando”. Non
era più un aspettare ma un “attendere”.
Vediamo se ne esce una pagina decente per la mia rubrica.
Il sicomoro di Gerico |
La simpatia va subito a quell’ometto
piccolo di statura, furbo, sempre di corsa, intraprendente, determinato, libero
dai condizionamenti sociali, da ciò che pensa e dice la gente. Un solo pensiero
lo guida: il desiderio di vedere Gesù. È mosso dall’inquietudine, dal disagio
interiore. Ha i soldi e si sente vuoto, non gli bastano a colmare il cuore,
anzi lo inaridiscono. È insoddisfatto, ma non rassegnato. Ed eccolo
sull’albero. È curiosità la sua o una segreta ricerca di felicità, il desiderio
sincero di un incontro che cambi la vita? È comunque un’iniziativa premiata:
trova la gioia, la forza della conversione, della generosità e del dono, la
salvezza. Non si ripiega sui propri sbagli: è libero perché liberato.
Quanti troverebbero la felicità e la
pienezza della vita se si mettessero alla ricerca del tuo volto, Gesù, come
fece Zaccheo; se si accendesse in essi il desiderio di te, se andassero oltre
le convenienze sociali, se vincessero i pregiudizi dei luoghi comuni su di te,
sulla tua Chiesa e avessero il coraggio di guardarti in faccia, di lasciarsi
interpellare dal tuo vangelo...!
Anche per noi Zaccheo resta un modello.
La ricerca di te può affievolirsi, nell’illusione di averti trovato, di
conoscerti già, tu sempre nuovo, imprevedibile, inafferrabile. L’assuefazione
alla tua presenza può smorzare la gioia, lasciarci illanguidire, insabbiare il
cambiamento di vita e renderci statici, inoperosi.
La nostra simpatia va soprattutto a te
che sai suscitare l’insoddisfazione e il desiderio della ricerca. A te che per
primo ti muovi per trovare ciò che è perduto. A te che hai alzato lo sguardo e
hai rinvenuto la pecorella smarrita e non l’hai rimproverata, che hai accolto
il figlio prodigo senza rinfacciargli il male fatto e senza chiedergli di
restituire il maltolto. A te che hai onorato il peccatore con la tua visita.
Forse non sappiamo suscitare la
salvezza attorno a noi perché all’altro abbiamo sempre tante cose da dare, da
dire: siamo ricchi. Tu invece hai chiesto a Zaccheo, facendoti bisognoso
d’accoglienza: eri povero. Così l’hai messo in occasione di donare e il cuore è
scoppiato di generosità e di gioia.
Riparto per il Continente, o per l’Italia, come dicono in Sardegna.
Torno in Continente e lascio qui la nostra splendida comunità. Gli Oblati, con un po’ di presunzione, si definiscono “vicini alla gente”. Qui è particolarmente vero. Si guasta l’ascensore? Le fogne sono intasate e fuoriescono i liquami? È finito il gas? C’è una emergenza sanitaria? Dove va la gente? Dagli Oblati. Non va alla messa ma va dagli Oblati. In un quartiere senza punti di riferimenti e centri di aggregazione, non si va dal sindaco, in comune, si va dal parroco.
Qui le persone sanno di essere accolte, ascoltate, aiutate se possibile. Gli Oblati si fanno loro portavoce e vanno dal sindaco, dall’assessore, li portano sul posto… Terra di missione.Torno in Continente e lascio paesaggi da sogno, amalgama di rocce, boschi, montagne e vallate, mare, spiagge, cale e calette...
Torno in Continente e lascio e gente accogliente. Prendo a prestito le parole di Paolo VI pronunciate al santuario della Madonna di Bonaria: “popolo semplice, laborioso, austero, taciturno, selvatico e triste, ma dai costumi umani e pii; un popolo adusato alle privazioni e alla fatica, un popolo isolato dal mondo, come la sua terra; un popolo dalle passioni fiere e tenaci, ma insieme dai sentimenti ingenui e gentili, capaci di esprimersi in leggendarie fantasie ed in canti gravi e calmi come echi incantevoli, che recano ancora la voce di secoli lontani”.
Breve visita alle Suore di Madre Teresa
di Calcutta che abitano nel medesimo edificio dell’oratorio parrocchiale. Ne
incontro due soltanto, delle sei che compongono la comunità, una albanese e una indiana. Pochi minuti e alla porta si
susseguono più persone che vengono a portare aiuti di genere alimentare per i
poveri. Le suore visitano infatti le famiglie del quartiere e nei casi più disperati
fanno anche le pulizie delle case e altri servizi, specialmente per le persone più
povere, ammalate o anziane.
Nell’oratorio vengono i volontari dei
Somaschi per il doposcuola a ragazzi e giovani. Ivan, il giovane Oblato, pensa
alle materie scientifiche. La scuola del quartiere ha chiuso le medie e ha
accorpato le classi elementari: i genitori preferiscono mandare i figli in
altre scuole più lontane perché l’aria che si respira da queste parti è troppo
pesante, con delinquenza, droga, violenza. Ma padre Paolo, da buon vecchio
missionario, mi assicura che la maggior parte della gente è buona, c’è solo una
cattiva fama a causa di pochi… La chiesetta che gestisce, succursale della
parrocchia, era il locale d’appoggio degli operai, proprio tra i palazzi, quando
lavoravano alla costruzione delle case popolari. La stanza adibita a sacrestia
è stata occupata abusivamente durante il periodo del lockdown e è impossibile farla
liberare, come è impossibile far rimuovere la macchina senza ruote, riempita di
tutto e di più, parcheggiata davanti alla porta della chiesa e attorno alla
quale screscono le erbacce. “Bisogna capire – ripete p. Paolo – sono persone
che hanno problemi, ma sono buone”.
Il quartiere è nato con gli sfollati
della guerra, quando il 70 per cento di Cagliari fu distrutta dai
bombardamenti, ed ha continuato ad attirare poveri e persone disadattate. È in
una posizione bellissima, sul mare. Il comune ha creato parchi, una magnifica
passeggiata lungo in mare, campo da gioco… “Ma adesso bisogna costruire le
persone…”, dice p. Stefano.
Dei quasi 10.000 abitanti la domenica vanno
in chiesa soltanto 90 persone. Terra di missione. E i nostri Oblati sono
proprio missionari. Dopo sei anni in un’altra zona di Cagliari, da un anno sono
stati invitati a prendersi cura del quartiere e della parrocchia. Le volontarie
del Movimento dei Focolari danno la loro collaborazione al centro di ascolto, nei locali della parrocchia, e stanno avviando una consulenza medica. Sono coinvolti anche i
laici di Madre Teresa. Attiva la Charitas. “Dobbiamo aiutare le persone a
diventare umane – ripete p. Stefano citando sant’Eugenio – poi cristiane, poi
sante”. Umane: occorre creare un centro sociale, favorire il dialogo fra
tutti, dare fiducia… Terra di missione! E missionari sono p. Stefano che gestisce
l’ufficio immigrati; p. Paolo che visita le persone anziane; p. Saverio che si
occupa più direttamente della parrocchia; p. Francesco che tiene aperta la
comunità su tutta la Sardegna organizzando incontri, predicazioni, missioni;
Ivan, che si prepara al sacerdozio e intanto si cala nella realtà del territorio…
Percorro in lungo e in largo questa terra
di missione, strada per strada, tra panni stesi, pochissimi negozietti precari,
garage adibiti abusivamente ad abitazioni, abeti e prati che abbelliscono gli
spazi, l’affaccio sul mare che allarga l’animo, la vista della collina rocciosa
che domina dall’alto infondendo sicurezza… e tanta umanità, tanta umanità, che ricorda
le folle senza pastore che Gesù incontrava e alle quali dava pane e speranza.
“… io sono un detenuto politico e sarà un condannato
politico… non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in
fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in un certo modo,
perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a
dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere
tranquillo e contento di me stesso”.
20 ottobre - Dopo Paolo VI e Madre Teresa è ora la volta di Antonio Gramsci. Sono a Ghilarza, nella sua casa natale ora trasformata in museo. Nella prima stanza campeggia la gigantografia di una lettera alla madre di cui ho ricopiato questa frase, testimonianza di un altissimo profilo morale, coerente. E in questo mondo di scotenti, proprio mentre è provato della libertà e allontana da moglie e figli, si dichiara contento! È soltanto uno dei grandi sardi che incontro in questi giorni. Penso ad altri grandi politici come Segni, Berlinguer, Cossiga…
Ghilarza, paese di Gramsci |
Sono venuto questa mattina a Aidomaggiore, nel cuore della
Sardegna. Un paesetto in mezzo a colline verdi, ricche di olivi, vigne…
Trent’anni fa c’erano 1300 abitanti, ora poco meno di 400, con uno spopolamento
che colpisce tutta l’isola. Ma ci sono ancora i Carabinieri, l’ufficio postale,
il tabaccaio. E tante cose disabitate. Case a pietra nera, solide, belle,
arcaiche.
Al tramonto salgo sulla collina alle spalle del paese per
lasciarmi avvolgere dal mistero di tre nuraghi. All’ultima luce del sole
appaiono caldi, danno sicurezza, anche se, solitari, non sanno raccontare le
storie che li ha abitati.
Più lontano un “novenario”, di cui non avevo alcuna
conoscenza: una chiesetta dedicata a Maria con attorno delle piccole case che
vengono abitate soltanto durante la novena dell’otto settembre. Le persone del
paese si trasferiscono lì per pregare, fare festa, dormire insieme, accampati. Vengono
anche i parenti, gli amici… Al mattino partono per il lavoro e a sera tornano
di nuovo. Una tradizione diffusa, che rifiorisce ad ogni festa patronale, e
sono tante. Ci sono ancora i festoni con le bandierine che ricordano la festa
del mese scorso. Penso che una volta un evento del genere fosse occasione di
una profonda evangelizzazione, e mantenesse viva la fede, chissà se oggi svolge
ancora questa funzione…
21 ottobre – Oggi è la volta di altri grandi sardi, anzi
sarde. Inizio da Nuoro, con Grazia Deledda. La casa natale custodisce
tanti ricordi. Di stanza in stanza rifiorisce la vita di fine Ottocento. Mi
attira soprattutto una foto che la ritrae con altri artisti della città: un
musicista, un pittore, un poeta… Un cenacolo di artisti! Non fiorire in
solitario, ma in legami di interessi, di passioni, di condivisioni…
Casa di Grazia Deledda |
A Dorgali un’altra grande sarda, la beata Maria Gabriella Segheddu, Gabriella della Trappa. Questa volta la casa natale non è bella, spaziosa e signorile come quella di Gramsci e Deledda… ed è anche chiusa! Non è una attrazione turistica e culturale. Per chi la conosce sa che ha bruciato le tappe della santità e dato la vita per l’unità dei cristiani. In paese la ricordano per il carattere ostinato, critico, contestatario, ribelle, ma con un forte senso del dovere, della fedeltà. Poi, nella trappa di Grottaferrata, la metamorfosi: “Nella semplicità del mio cuore, ti offro tutto lietamente, Signore… Io mi sono offerta interamente e non ritiro la parola data… La volontà di Dio, qualunque essa sia: questa è la mia gioia, la mia felicità, la mia pace.
Casa di Grazia Deledda |
Casa di Gabriella della Trappa |
A Orgosolo mi aspetta la beata Antonia Mesina: una casa ancora più modesta e anche questa chiusa ai visitatori. In compenso è aperta la cripta che contiene il suo corpo, con gli affreschi che raccontano la breve vita, un fiore colto in tutta la sua purezza.
Casa di Antonia Mesina |
Antonia Mesina con l'amica |
Il tutto incastonato in una natura meravigliosa e un po’
selvaggia, la Barbagia, così denominata dai Romani – terra dei barbari – perché
non riuscivano a domarla. Le rimane ancora quel tocco di indomabile.
All’ingrasso di Orgosolo un murale lo afferma chiaramente: “Nel territorio di
Orgosolo il popolo regna sovrano e lo stato obbedisce”. È un mondo a parte con
le sue regole. I numerosi murales che rappezzano l’intero corso testimoniano la
forte ribellione contro ingiustizie, soprusi, vuote retoriche. Gente tutta d’un
pezzo.
Murale di Orgosolo |
A sera, nei dintorni di Aidomaggiore e Sedilo visito
altri “novenari”: chiese ancestrali, porticati per i pellegrini, orizzonti
appaganti lo sguardo e l’anima.
Santa Greca con Antonietta e Assunta |
22 ottobre – Alla partenza da Aidomaggiore tutto il
vicinato si è riversato in strada per salutarmi e reclamarmi per più prolungato
soggiorno. Che umanità bella! A cominciare dalla carissima Giulietta e da sua
sorella Assunta, dal nipote Piero, dall’amico Roberto, da Antonella, Tanina, il vecchio
patriarca Michelino… Un mondo piccolo e coeso, accogliente, pieno di sentimenti,
di passioni, di tragedie e di sofferenze, come ovunque, ma qui particolarmente
condiviso.
A Narbolia altra accoglienza festosa. Ritrovo l’aria di
casa mia, aria di famiglia, con figlie e figli attorno alla mamma anziana. Le
ore corrono veloci. Non vorrei più partire…
E i siti archeologici: Nuraghe Losa, Tharros… Silenziose
pietre millenarie. Il tramonto a Capo san Marco infonde una pace infinita e
chiude questa mio giornata d’incanto.
Alla crocifissione di Gesù “c’erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Magdala…”. Così il Vangelo di Marco (15, 40). Invece secondo Giovanni le donne stavano ai piedi della croce (18, 25-27). L’arte va oltre e mostra Maria di Magdala avvinghiata ai piedi del Crocifisso. È forse il prolungamento dell’atto di lavargli i piedi con le lacrime, profumarli, asciugarli con i capelli (la tradizione ha infatti fuso la peccatrice innominata con Maria di Magdala). L’arte non contenta di ritrarre la Maddalena mentre abbraccia i piedi del Crocifisso, glieli fa abbracciare e a baciare anche nell’atto della deposizione (come in un bel dipinto di Pietro Cavaro conservato proprio nella pinacoteca di Cagliari, dove invece Maria di Cleofa esprime il suo dolore levando le braccia al cielo…).
Le donne gli abbracciarono i piedi
anche il giorno della resurrezione: e siamo al Vangelo di Matteo (28, 9). Erano
importanti i piedi di Gesù, si potevano toccare: Dio si era fatto “carne”.
Non posso non pensare a questi episodi del
Vangelo mentre guardo il grande Cristo crocifisso che domina la chiesa di
sant’Elia degli Oblati a Cagliari. Ha i piedi grandi, sproporzionati. Sono
grandi quei piedi baciati e bagnati di lacrime dalla peccatrice, abbracciati da
Maria di Magdala, avvinti dalle donne della resurrezione.
Anch’io, come le donne, inizio a
guardare questo crocifisso dal basso, dai suoi piedi. Grandi, perché hanno
percorso tanta strada, per andare in villaggi e città, in cerca delle pecorelle
smarrite, incontro a peccatori e malati. Camminava, camminava per portare
ovunque l’annuncio della buona novella: “Come sono belli i piedi del messaggero
di lieti annunci, messaggero di bene che annuncia la salvezza» (cf. Is
51, 7). È un Cristo missionario quello appeso sulla croce nella chiesa dei
missionari a sant’Elia.
Piedi grandi e braccia spalancate. Le
donne gli hanno abbracciato i piedi, lui ha abbracciato il mondo intero: ha
spalancato le braccia per un abbraccio universale, è morto per tutti (cf. 2
Cor 5, 14). È il Salvatore, titolo che sant’Eugenio amava in modo
particolare, col quale voleva che i suoi Oblati lo pregassero.
Dai piedi salgo con lo sguardo fino al volto.
Non è subito evidente se ha gli occhi socchiusi o definitivamente chiusi dalla
morte. Il sangue che sgorga dal costato dice che ha già ricevuto il colpo di
grazia con la lancia. Sembra abbia appena dato l’ultimo respiro, ha la bocca
ancora socchiusa. L’evangelista Giovanni, usando una parola del tutto in solita
per designare la morte di Gesù, scrive che “consegnò” lo spirito: “reclinato il
capo consegnò lo spirito” (19, 30). Luca dice che lo consegnò al Padre (cf. 23,
46). Giovanni sembra mostrare Gesù nell’atto di consegnare il suo spirito (lo
Spirito?) su Maria e Giovanni che, ai suoi piedi, rappresentano tutti noi, la
Chiesa. Quando veniamo a pregare questo Crocifisso dovremmo aprire anche noi la
bocca per aspirare lo Spirito che Gesù soffia su di noi: da bocca a bocca, come
un bacio.
La prima cosa che mi ha colpito guardando
questo grande crocifisso in ceramica, opera dell’artista Claudio Pulli, 1973, è
la sua collocazione: davanti a un dipinto precedente, sul fondo della chiesa, raffigurante
la scena della Trasfigurazione.
Troppo evidente il contrasto. La Trasfigurazione
dovrebbe essere luminosa: Gesù vi appare in tutto il suo splendore, davvero “il
più bello tra i figli dell’uomo”: vi traspare la sua divinità, chiaramente
proclamata dalla voce del Padre. Invece il dipinto, su maiolica, nella chiesa
di sant’Elia, è severo, scuro… non mi permetto di dire brutto.
Per contro il Crocifisso è bello, luminoso,
pur nel suo colore di un rosso-mattone intenso.
Non dovrebbe essere tutto l’inverso?
Di cosa stavano parlando Gesù, Mosè e
Elia sul monte della trasfigurazione? Del transito che sarebbe avvenuto in
Gerusalemme. La luce del Tabor, come un faro potente, era tutta proiettata sul
Tabor. È quello – mi pare – che appare dal Crocifisso di sant’Elia. Lì, sulla
croce, Gesù si mostra davvero il più bello dei figli dell’uomo, proprio nel
momento in cui è sfigurato, irriconoscibile. È sfigurato per ridare a noi la
figura di figli di Dio che avevamo perduto con il peccato.
Per questo Maria di Magdala lo
abbraccia. Per questo anche voi lo abbracciamo.
Dopo quel grido tremendo che fece tremare
la terra, il Crocifisso di sant’Elia è nella pace, ha completato l’opera che il
Padre gli aveva affidato: “È compiuto” (Gv 19, 30). Il “missionario”, il
“mandato” dal Padre, ha compiuto la sua missione. Un invito a compiere anche il
mandato missionario affidato ad ognuno di noi battezzati.
Su Padre Gigi Sion lascio raccontare prima a Lucia Borzaga, poi a suo fratello Mario Borzaga.
Lucia:
Giovedì sera padre Gigi ci ha salutato, dopo una vita di
missione e di Fede incarnata nella vita quotidiana. Se n’è andato in punta di piedi,
all’improvviso, senza disturbare nessuno.
Nei suoi 54 anni di missione ha attraversato il mondo:
prima il Laos, poi l’Uruguay e infine il Kenia. Un vero Missionario con la M maiuscola.
Con un carattere forte, indipendente, libero e soprattutto pieno d’ironia che l’aiutava
a stemperare ogni suo gesto e ogni situazione. Un artista che era noto per i suoi
disegni e le sue caricature con cui prendeva in giro confratelli e superiori, senza
fare distinzioni. Un costruttore di chiese e di scuole conquistando sul campo il
ruolo di ingegnere e architetto.
Il 31 ottobre 1957 parte dal porto di Napoli per il Laos
con padre Mario e altri quattro compagni. Con lui vive tanti momenti di vita dura
nella foresta, momenti estremi, faticosi, pieni di sudore, di domande e di Fede.
Si sostengono a vicenda, condividendo anche la passione per il fumo. Padre Mario
fuma sigarette e lui fuma la pipa. Quando nel 1960 padre Mario era “sparito” lo
aveva cercato tanto e più di una volta ricordava il dolore che aveva provato nell’incontrare
i suoi genitori a Trento. Parlando del suo confratello Beato, faceva rivivere il
suo amico raccontandolo senza timidezze e senza celebrazioni ampollose. Ora sono
di nuovo insieme, nella pienezza della Vita che non finisce mai. Mario e Gigi, grandi
missionari che sorridono nella Pace dei Giusti. Di loro ci restano tanti ricordi,
foto, frasi, sorrisi, parole e tanta fede.
Negli scritti di p. Mario, p. Gigi
appare moltissime volte. Trascrivo alcune brevi frasi degli inizi della
missione nel 1959.
Padre Sion si buttò su d’una sedia, stanco. Con aria giocondamente sconsolata bofonchiò:
“Se questi
Meo non la smettono di convertirsi, andrà a finire che io diventerò pazzo”. Diceva così per dire, per sottolineare
con una frase che avesse un po’ di sapore, tragico ad esempio, che egli aveva molto lavoro.
Quando ci si mette la Grazia, evidentemente c’è del lavoro, soprattutto se si vuole marciare
col suo ritmo. A Na Vang, il villaggio sulla catena di montagne dalle carovane di
nubi, un due trecento Meo, or soli, or a gruppi, in questi mesi hanno voluto entrare
cheti cheti nell’ovile della
Chiesa del Cristo. Padre Sion è il loro pastore.
All’arrivo a Luang Prabang lo stile diverso di Staccioli e Sion:
Andammo ad attenderli all’aeroporto. Padre Staccioli apparve alla scaletta del Dakota timido
e sorridente in mezzo alla variopinta folla dei funzionari e dei bonzi, Padre Sion
dal canto suo ci salutava col gesto classico della mano di moda presso i grandi
internazionali, sfoggiando quella cert’aria libera e indipendente comune a tutti i triestini dell’universo.
Il costruttore:
Così accadde che a Nam Tha Padre Staccioli e Padre Sion lasciarono
per qualche giorno i lavori dell’apostolato per dedicarsi a rifare il tetto della loro casa. Il
tradizionale tetto di paglia, caro nelle Missioni tropicali, fu gettato alle fiamme
per dar posto alle moderne lamiere sulle quali la pioggia picchia sonora ch’è un piacere, mentre in casa ci si gode
un focherello e due palmi d’asciutto. Nonostante il tetto nuovo, Padre Sion il pessimista
allegro, scriveva nel suo diario: “Abbiamo rifatto il tetto. Attendiamo le prossime piogge per vedere
da che parte cade l’acqua e
dove sistemare la roba”.
Il missionario:
Quando Padre Sion, dopo due giorni di marcia giunse a Na Vang,
era il primo sabato del mese di maggio e tutta la gente se ne stava in ozio seduta
sui tronchi o all’ombra dei
tetti di paglia. “Che fate?
Oggi non lavorate?” chiese
Padre Sion. “Come? Non
sa? Oggi è sabato e di sabato non si lavora, lo ha detto il Pastore”. Padre Sion si senti venir meno: due giorni
di cammino per capitare in un villaggio protestante. Poi raccolse le idee e con
quel suo cipiglio mezzo burbero e mezzo bonario propose: “Beh, sentite, il giorno del Signore non
è il sabato, ma la domenica, d’ora innanzi riposerete la domenica”. Il capovillaggio subito riunì gli anziani
a consiglio. Cosa pensare della religione del Padre? Sciòng, il catechista meo di
Padre Sion, piombò a razzo nelle discussioni, parlò con calore della religione cattolica,
dimostrò l’errore
della dottrina protestante. Dopo una notte intera di discussioni, il capo villaggio
fece sapere a Padre Sion che se il Missionario si fosse stabilito al villaggio,
a differenza del Pastore che si accontentava di qualche rara visita, essi si sarebbe
convertiti. E Padre Sion rimase.
Per i primi giorni Padre Sion fu sistemato nella casa del capo
villaggio. “Dormivo
la notte su una peIle di tigre, si dirà, la tigre era morta, ma le pulci della fu
signora tigre, erano fin troppo vive”. Dopo qualche giorno i meo gli costruirono una capanna di bambù,
contemporaneamente diciassette famiglie accettarono di incominciare il catecumenato
in preparazione al battesimo.
Coll’andare
delle settimane altre famiglie vicine e lontane vollero farsi cattoliche e Padre
Sion a girare dovunque sulle montagne col suo fedele catechista per compiere gli
esorcismi di rito e la benedizione della casa. Infatti una famiglia pagana non può
essere ammessa al catecumenato se prima non “caccia gli spiriti”, come diciamo noi. Il Padre in cotta e stola legge le formule
del rituale, il catechista traduce e ne spiega il senso.
Ma quanta fatica è costata questa Missione all’infaticabile Padre Sion? Tra di noi si va
dicendo che solo lui poteva fondare una Missione in simili condizioni durante la
stagione delle piogge sulle montagne. I cinquanta chilometri da Nam Tha non sono
che fango nel quale si affonda spesso fino al ginocchio, fiumi da attraversare a
guado, nei quali la corrente forte rischia ad ogni momento di trascinare via i cavalli
coi loro basti pieni di medicine e di libri. Le sanguisughe sono dovunque nella
fanghiglia e tra le erbe bagnate, impossibile impedire loro d’assalire il passante e d’attaccarsi alle caviglie. “Beati i piedi che annunciano la pace...”. Ma quando si arriva a Na Vang sui piedi
beati si trovano fino a venti trenta sanguisughe in rivoli di sangue, beato anche
lui.
Il Signore ha benedetto largamente le fatiche apostoliche di
Padre Sion. La domenica mattina alla Messa si possono avere fino a duecento persone
stipate fitte in quella povera capanna che durante la giornata deve servire da scuola,
stanza da letto e refettorio del Padre e dei catechisti, infermeria, sala gioco
e di ritrovo per tutti. Padre Sion ha saputo ottimamente formarsi il suo ambiente.
Pure incerto della lingua meo, s’aggira sorridente tra le sue variopinte schiere di meo bianchi
e meo “raye”, tra gli uomini che fumando le grandi pipe
ad acqua si scambiano quattro chiacchiere, le donne che col ricamo in mano se ne
scambiano cento, mentre la gioventù legge o canta e i ragazzi s’incaricano del baccano e del pubblico disordine.
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…»
Si potrebbe parafrasare così un antico proverbio: «Dimmi come preghi e ti dirò chi sei». La preghiera del fariseo mostra una persona buona, che osserva la legge alla perfezione, anzi più di quanto essa prescriva: è richiesto un digiuno la settimana e lui ne fa due. Bravo! Anche lui è cosciente di essere bravo, al punto che non ha bisogno di chiedere niente a Dio. Non ha bisogno di Dio per andare in paradiso, ci va da sé, con le sue gambe. È Dio piuttosto a essere in debito verso di lui: il paradiso gli è dovuto perché è buono. Sfasato il rapporto con Dio, si sfasa anche quello con gli altri e nasce il confronto, la critica, il giudizio, la condanna.
È una caricatura quella che Gesù ha disegnato con la parabola? Non esistono mica persone così. O forse Gesù vuole smascherare certi atteggiamenti che covano anche nel nostro cuore. Sono proprio sicuro che anche in noi non faccia capolino un po' di autocompiacimento, un senso di superiorità nei confronti di qualcuno?
Vorrei tanto identificarmi con il pubblicano.
È sincero il fariseo quando dice di essere ligio alla legge ed è altrettanto sincero
l’odiato esattore delle tasse quando dice che ha infranto la legge. Ha frodato?
Ha praticato l’usura? Ha tradito il suo popolo vendendosi al nemico? Comunque
sia, si riconosce per quello che è: un peccatore. È quello che sono anch’io. Ma
mi riconosco davvero sempre come tale, con la sua stessa sincerità? E quando lo
riconosco mi abbandono nelle mani di Dio con la sua stessa fiducia?
Spero tutto e solo da Dio? Se sono un
peccatore ho bisogno di Dio, come il pubblicano. Da me non mi posso salvare. Gesù
è venuto per i peccatori, non per i giusti. È venuto per il pubblicano, è venuto
per me. Abbassa chi si è innalzato e innalza chi si è abbassato, come aveva predetto
sua Madre: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore... ha innalzato
gli umili» (Lc 1, 51-52).
Tra i nuraghi nel cuore della Sardegna non c’è wi-fi. Occorrerà attendere sabato per tornare nell’era contemporanea.
Per il momento vedi https://fabiociardi.blogspot.com/2012/08/il-silenzio-e-la-solitudine-del-nuraghe.html
L’arcangelo Michele lottò col diavolo, lo disarcionò e la
sella cadde in mare e si pietrificò diventando un promontorio. Così la leggenda.
Sono salito sulla Sella del diavolo, un aspro monte circondato dal mare, con
una visione a tutto tondo, in una mattinata di sole luminosissima. Fin sulla
cima, una volta sede del tempio di Artemide e ora sormontata da una grande
croce di legno. Com’è bello il creato!
Torno al “campo base”, in quartiere Sant’Elia. Nel 1985
Madre Teresa vi aveva mandato le sue suore. L’anno successivo venne lei stessa
a visitare il quartiere: era proprio adatto per le sue suore, che ancora oggi
sono qui assieme agli Oblati. Madre Teresa fu ospitata nei locali della
canonica, in quella che ancora oggi si chiama Via dei musicisti, ma che presto sarà
rinominata via Madre Teresa di Calcutta: parola di p. Stefano! Una targa di pietra sul muro della casa
ricorda: “Casa Madre Teresa di Calcutta S. Elia Cagliari, 24-26 settembre 1986”.
In quegli anni anche i gen della Sardegna venivano come volontari a dare una
mano nel quartiere. Maria Caterina, ora a Roma, mi raccontava che per due
estati ha dato ripetizione ai ragazzi…
Pomeriggio alla Madonna di Bonaria, un tuffo nella più
pura pietà popolare. Storie e tradizioni sono quelle dei più grandi santuari,
così come l’infinita collezione di ex voto, soprattutto di barche e navi
salvate dalle tempeste grazie a un frammento della cassa della Madonna. Leggo
il discorso programmatico che vi tenne Paolo VI nella sua memorabile visita. Fu
in quella occasione che tra l’altro disse e documentò la famosa frase: “Non si
può essere cristiani se non si è mariani”.