In tempo di “distanziamento sociale” papa Francesco propone la
“prossimità”. Prima di una parola essa è il suo stile di vita, la cifra del suo
pontificato. Con i viaggi a Lampedusa, Lesbo, Banguì, la visita ai campi profughi dei
Rohynghia, al confine tra Stati Uniti e Messico, si è fatto prossimo con
l’umanità scartata. I poveri se li è portati accanto, sotto il colonnato di san
Pietro. Pratica prossimità più scandalose ancora, che lo compromettono
davanti a tanti, come quella con i musulmani ad Abu Dhabi, o con i divorziati
risposati, con gli omosessuali… “Siamo una società – ha affermato celebrando la
messa su un altare fatto con i legni dei barconi degli scafisti – che ha
dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’”. E denuncia con
coraggio la “globalizzazione dell’indifferenza”, a cui contrappone l’attenzione
all’altro, per fargli sentire vicinanza, comprensione, affetto, aiuto...
Prima
di essere lo stile di Francesco è lo stile di Dio, che si è fatto prossimo
dell’umanità, buon Samaritano che cura le ferite, compagno di viaggio capace di
condividere tutto di noi e di colmare ogni solitudine.
Può
diventare il nostro stile. La pandemia è una sfida a trovare nuovi modi per
vivere la prossimità in famiglia, con i vicini, con i lontani… Forse in questo troveremo
anche il nostro bene. «Anche la vita di Francesco d’Assisi è
cambiata quando ha abbracciato il lebbroso – ricorda ancora papa Francesco – perché
ha toccato il Dio vivo. Lo stesso apostolo Tommaso per trovare Dio ha dovuto
mettere il dito nelle piaghe, mettere la mano nel suo costato. Questo è il
cammino. Non ce n’è un altro».
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