Per il sito di Città Nuova ho scritto un breve commento alla
nuova traduzione della sesta domanda del Padre nostro
Il nuovo messale ci farà pregare in modo
diverso la sesta invocazione del Padre nostro, non più «non indurci in
tentazione», ma «non abbandonarci nella tentazione”. Perché?
Potremmo ricostruire ipoteticamente il Padre
nostro in aramaico, la lingua nella quale Gesù ha insegnato agli apostoli a
pregare. Di fatto lo abbiamo in greco, come tutti i testi del Nuovo Testamento,
e in greco il verbo che riguarda la tentazione è eis-phero, che significa dentro-portare, far entrare, intro-durre =
in(tro-)durre = indurre! Il non “indurre” in tentazione è dunque letteralmente
corretto. Gli antichi, che in latino hanno tradotto inducat, sapevano il greco come e meglio di noi.
Ma in italiano oggi la parola indurre assume un
significato negativo, perché richiama l’idea di esercitare una pressione su qualcuno
perché agisca in un determinato modo, magari contro la sua volontà.
Ecco allora i tentativi per rendere in maniera
più adeguato ciò che si chiede nel Padre nostro: “non abbandonarci nella
tentazione”, “non permettere che cadiamo quando siamo tentati”.
Il problema non è tanto filologico quanto teologico.
Al di là della traduzione (come sempre sono possibili più traduzioni) si sente
il bisogno dell’interpretazione e di spiegare cosa Gesù ci avrebbe insegnato a
chiedere.
Si parte, prima di tutto, dall’affermazione che
Dio non può tentare, espressa con forza dalla lettera di Giacomo: «Nessuno
mentre è tentato dica: “Vengo tentato da Dio!”. Dio è infatti immune dal male
ed egli non tenta nessuno» (1, 13).
Le due tentazioni più famosi non sono infatti
opera di Dio, ma del diavolo: quella di Adamo e Eva (il serpente istiga a mangiare
il frutto proibito) e quella di Gesù, quando andò nel deserto «per essere tentato
dal diavolo» (Mt 4, 1). Ma proprio
quest’ultima tentazione fa suonare un campanello d’allarme. A mandare,
letteralmente a “scaraventare” (Mc 1,
12), Gesù nel deserto fu addirittura lo Spirito Santo, secondo l’unanime
testimonianza dei tre vangeli sinottici. Lo Spirito Santo, Dio, non tenta Gesù,
di fatto lo mette nelle mani di Satana, proprio come fece Dio con Giobbe. Certamente
non è un abbandono incondizionato, Dio segue quanto sta accadendo e pone delle
restrizioni a Satana (cf. Gb 2, 6). Rivolgendosi
ai cristiani di Corinto Paolo li rassicura: «Dio è fedele e non permetterà
che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la
via di uscirne» (1 Cor 10, 13).
E qui l’attenzione si sposta sull’altro termine
implicato nella richiesta «Non indirci in tentazione».
Cosa significa tentazione, in greco peirasmón? Può essere tradotto con “prova”. Mettere alla prova è
un’azione propria di Dio. Egli mette alla prova Abramo per saggiarne la fede,
mette alla prova il popolo nella sua traversata del deserto per educarlo. Mosè
dirà: «Dio è venuto per mettervi alla prova e perché il suo timore sia sempre
su di voi e non pecchiate» (Es 20,
20). Nel greco dei LXX il verbo mettere alla prova è peirasai, lo stesso termine che troviamo nel Padre nostro. Se la
traduzione della CEI di Esodo 20, 20 è “mettere alla prova”, perché non
tradurre anche il Padre nostro con “non metterci alla prova”? Come suonerebbe
Esodo 20, 20 se, analogamente al Padre nostro, lo traducessimo: “Dio è venuto
per tentarvi”?
Quando salgo su un aereo sono contento se il
pilota è una persona “provata”. Se compro un comune utensile domestico vorrei
che fosse “testato”. Mi sento rassicurato nel sapere che il medico che dovrà
operarmi è “pratico” (per aver sostenuto la prova). Bastano questi semplici
esempi per farci capire quanto sia importante la “prova”, in tutti i campi,
compreso quello della fede e della vita spirituale. Che Dio ci renda persone
provate! Ma per questo deve pur metterci alla prova, deve educarci. Anche il
professore a scuola sottopone gli studenti alle prove di esame. A volte le
prove della vita, come quella di scuola, possono essere dure, e ancora di più possono
esserlo quelle della fede e della fedeltà al Vangelo, un autentico
combattimento, come ricorda spesso san Paolo. Gesù stesso è stato messo alla
prova (tentato) in ogni cosa, accetto il peccato, perché diventasse “provato”,
“perfezionato”, “perfetto”, uno che di prove e tentazioni se ne intende, che le
ha attraversate tra «forti grida e lacrime», in modo da poter aiutare gli altri
a superarle, divenendo «causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono»
(Eb 5, 7-10).
Potremmo dunque intendere la domanda del Padre
nostro come un “non farci fare l’esame”, oppure: “quando arriva l’esame non
lasciarci da soli, ma aiutaci a superarlo”.
Benedetto XVI ha ben parafrasato la preghiera:
«So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi
di sottopormi a queste prove, se – come nel caso di Giobbe – dai un po’ di mano
libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura limitata delle mie
forze. Non credermi troppo capace. Non tracciare troppo ampi i confini entro i
quali possa essere tentato, e siimi vicino con la tua mano protettrice quando
la prova diventa troppo ardua per me» (Gesù
di Nazaret, 2007, p. 195).
Se la nuova traduzione ci aiuta a capire tutto
questo, ben venga. Essa risponde al bisogno di adeguare costantemente la lingua
della liturgia alla costante evoluzione della lingua.
Il tema di fondo, lo ripeto, non è tuttavia
filologico, ma teologico, o meglio ancora quello pastorale: aiutarci a capire
sempre meglio la Parola di Dio. È necessaria una conoscenza sempre più profonda
della Bibbia perché, risolta una difficoltà, ne rimangono cento altre. Quando,
ad esempio, leggiamo che Dio maledice, che si adira… dovremo trovare nuovi modi
di tradurre, certamente, ma soprattutto dovremmo cercare di conoscere meglio il
linguaggio biblico.
Rimarrebbe un altro tema da affrontare, a
proposito della nuova traduzione del Padre nostro, quello ecumenico. È l’unica
preghiera che possiamo fare insieme, fedeli delle diverse Chiese e comunità
cristiane. Non sarebbe opportuno che, prima di pubblicare il nuovo messale, ci
si mettesse d’accordo tra tutte le confessioni per un testo comune?