Dopo uno dei recenti bombardamenti sulla città di Aleppo, che ancora una
volta ha raso al suolo case e falcidiato persone, una bambina di nove, dieci
anni passa davanti alla telecamera. Cammina svelta, si volge appena verso
l’obiettivo, quanto basta per gridare nel pianto: “Che male abbiamo fatto?”. Mi
è rimasta impressa negli occhi e mi è scesa nel cuore. In un attimo l’immane
tragedia di una guerra per me lontana, ha il volto velato di quella bambina. Non
è più soltanto un conflitto senza vie d’uscita, un intricato problema
geopolitico, il frutto di concause sempre più difficile da districare, una
convergenza di interesse economici. È semplicemente una bambina in lacrime, che
ha perduto casa e familiari e che grida il suo disperato perché.
Non possiamo evadere da problemi di portata sempre più vasta che ci
assediano in continuazione, sempre gli stessi e sempre nuovi: le guerre, i
profughi, il terrorismo, ma anche la disoccupazione, la crisi economica… Il
loro elenco si allunga di giorno in giorno, diventando oggetto di analisi,
dibattiti… Rimangono irrisolvibili, anzi si aggravano. E se invece che ai
problemi guardassi alle persone? Non vorrei sembrare semplicista. Lo studio dei
fenomeni e la ricerca delle strategie, delle soluzioni politiche, dei
compromessi è fondamentale. Ma senza perdere il contatto con le persone
concrete. Come parlare del fenomeno carcerario se non si conoscono per nome
almeno alcuni carcerati, le loro storie e quelle delle loro famiglie? Oppure
dei profughi se non si è ascoltato lo sfogo di chi è dovuto fuggire lasciando
una vita alle spalle?
Tanti talk show di radio e di televisione, come le discussioni di strada e
di salotto, somigliano più a una esorcizzazione dei problemi che non a una loro
reale assunzione. Per penetrarvi davvero e trovarne vie di soluzione mi pare
indispensabile il contatto personale con chi vive in quei problemi. Allora
acquistano un volto. Da problemi tornano ad essere persone. Lo so che questo
non basta, che i problemi restano problemi e che occorre elaborare strategie di
largo respiro. Conoscere e essere vicino a quel profugo, a quel disoccupato, a
quella famiglia provata, o anche solo ascoltare quel “Che male abbiamo fatto?”
della bambina irachena, può tuttavia accendere la creatività e accelerare il
percorso verso le soluzioni.
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