Arnoldo Foà, negli anni Sessanta,
resa famosa la poesia di García Lorca
Erano
le cinque della sera.
Erano
le cinque in punto della sera.
Erano
le cinque in punto su tutti gli orologi…
Era il lamento del poeta per Ignacio
Sánchez Mejías, il torero che perse la vita nella corrida.
Sono stato parecchie volte in
Spagna, ma non ero mai stato a una corrida. Mi ci hanno portato questa sera,
alle cinque della sera.
Mi hanno preparato dicendomi che è
tutta una liturgia, un combattimento che ha un ferreo rituale, e così via. È
invece, semplicemente, una “barbaridad”, per dirla proprio in spagnolo.
La grande arena è molto bella, nel
suo stile arabo, l’aria di festa che si respira fin da fuori è coinvolgente,
gli spettatori pieni di calore. È questo il primo spettacolo. Lo è anche la
musica, la coreografie, i costumi. Lo è soprattutto il gioco tra torero e toro:
elegante, fine, capace di tenere il fiato sospeso, una danza. Dovrebbe
arrestarsi qui e sarebbe uno spettacolo di prima classe.
Ma poi c’è la crudeltà gratuita,
sanguinaria, bestiale (degli uomini, non del toro), che va decisamente
rigettata. Alla fine unico vero eroe rimane il toro, vittima sacrificale della
brutalità umana.
Uno spettacolo così non merita di
essere visto una seconda volta.
García Lorca ha cantato il torero
ucciso. Ha dimenticato di cantare la mattanza dei tori.
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