“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde
nelle mani dei briganti…” (Lc 10, 30). Quando Gesù raccontò quella
parabola disse chi erano i passanti: un sacerdote, un levita, un samaritano… Ma
non disse niente di chi fosse quello derubato, spogliato, colpito a sangue e
lasciato a terra mezzo morto. Semplicemente “un uomo”. Non aveva un volto,
una nazionalità, una religione, un mestiere… era semplicemente “un uomo”. Gesù
non ha voluto specificare perché in quell’uomo ferito noi possiamo
riconoscere qualsiasi persona che sulla nostra strada noi ha bisogno di
aiuto: non importa chi essa sia, importa che quella persona ha bisogno di
aiuto, della mia agape; è un “prossimo”, come dice Gesù, un mio fratello, una
mia sorella.
1. Cosa fece
il Samaritano quando vide quell’uomo ai margini della strada? Per prima cosa “ne
ebbe compassione” e prese su di sé la sua situazione. Il primo nostro istinto è
di evitare chi ha dei problemi: ci sentiamo a disagio, non sappiamo come
comportarci, meglio ignorarlo. Il Samaritano si fermò invece a guardare l’uomo
ferito ed ebbe compassione. “Com-passione” significa vivere insieme all’altro
la medesima “passione” che egli sta vivendo, è entrare in sintonia con il “pathos”
che agita il suo animo, è condividere il suo “sentire”, il suo “patire”. Il
suo mondo, i suoi sentimenti, i suoi problemi non mi sono estranei, voglio
farli miei perché sono miei.
2. La
compassione si tramuta allora in “com-mozione”: il cuore non solo
sente, percepisce, capisce, fa sua la situazione che gli sta davanti, ma
avverte il bisogno di “muoversi verso l’altro”. Questo sia nei rapporti
personali, sia davanti alle sfide e alle necessità della società, fino a
calarvisi dentro, con una pregiudiziale positiva per “essere con”, “vivere con”,
nel desiderio di offrire una risposta, come si può, fin dove si può... Non è
invasione di campo, intrusione indebita e indiscreta nel mondo dell’altro, ma
offerta di prossimità, di amicizia, che dice semplicemente: possiamo darci una
mano?
3. La “compassione” e la “condivisione” si tramutano
allora in “con-divisione”. L’altro
divide con me ciò che ha: un problema, una difficoltà, ma anche una gioia. La
condivisione affratella, arricchisce, appaga, crea una complicità che non ti fa
sentire solo. La sofferenza
più grande è essere soli, senza nessuno con cui comunicare, scambiare un’idea,
un sentimento, un’opinione, un ricordo, un desiderio. Di solitudine si può
morire, o almeno illanguidire.
Occorre camminare insieme: Stare vicino all’altro, uscire dall’anonimato che
genera solitudine.
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