lunedì 11 aprile 2022

La tragedia della solitudine

In questi giorni ho letto L’amico armeno, un romanzo di Andreï Makine, ambientato nella Siberia agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. A seguito della repressione degli Armeni, l’URSS deporta in Siberia un gruppo di ribelli, a 5000 chilometri di distanza dal Caucaso. I parenti dei carcerati si trasferiscono vicino alla prigione e creano un piccolo villaggio armeno per stare loro vicino e per assisterli quando sarà il momento del processo. È un atto di straordinaria solidarietà e umanità: non abbandonare chi è imprigionato, chi deve affrontare un processo.

Inizia la Settimana Santa. Gesù l’aveva predetto: «Il Figlio dell’uomo verrà consegnato ai pagani, verrà deriso e insultato, lo copriranno di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno» (Lc 18, 32-33). Sapeva a quanto andava incontro. Aveva previsto anche che il suo gregge si sarebbe dispeso (Mt 26, 31). Ma forse non aveva immaginato di restare così solo.

Nell’orto degli ulivi prova tristezza, angoscia, una paura da morire e implora i tre discepoli che più gli erano vicini di non lasciarlo solo: “Vegliate con me” (Mt 26, 36). Pietro, Giacomo, Giovanni se li era portati con sé sul monte della trasfigurazione e nella casa di Giairo dove aveva risuscitato la bambina. Erano i discepoli più cari. E lo lasciano solo. Quando vengono per arrestarlo tutti scappano. Al processo Pietro nega di conoscerlo e da quel momento non c’è più nessuno accanto a Gesù. Affronta da solo le accuse, la flagellazione, il processo, la condanna… Non c’è nessuno con lui. Lo stesso sulla croce, quando è circondato soltanto da chi lo insulta, lo deride… Giovanni dice che c’era lui e la madre, ma Matteo dice che le donne “osservavano da lontano” (27, 55). Solo come un cane. Senza nessuno che lo sostiene, gli sta vicino, gli mostra un briciolo di comprensione, di affetto.

È questo che lo ha fatto soffrire di più, più della flagellazione, più della corona di spine, delle umiliazioni, dei chiodi: sentirsi solo, lasciato solo da tutti, soprattutto da quelli che aveva amato e per i quali moriva. Poi ci si mette anche l’abbandono del Padre: è il culmine, fino al grande grido inarticolato con il quale muore (Mt 27, 50; Pc 15, 37).

Quanti sono soli davanti al dolore, alla malattia, alle difficoltà della vita, alle disgrazie. Non hanno con chi parlare, con chi piangere, con chi consigliarsi; senza aiuto, senza comprensione, senza sostegno… È la tragedia nella tragedia. 

Gesù ha vissuto la più grande solitudine perché ha raggiunto e fatto propria ogni solitudine. Ha vissuto la solitudine perché non fossimo più soli. Noi le sue braccia i suoi cuori per colmare ogni solitudine. 

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