Il Vangelo di Giovanni apre l’ultima cena con frase
che ne interpreta la sua profonda natura: «Prima della festa di Pasqua Gesù,
sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo
aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, 1).
Giovani
dedicherà ben cinque capitoli del suo Vangelo a quanto avvenne quella sera
nella sala superiore, dove si alternano gesti e parole in un crescendo di
intensità. La ricchezza e complessità di quelle pagine possono essere sintetizzate
in un’unica parola: amore, in un’unica azione: amare. Un amore e un amare vissuti
fino al compimento che non conoscono limiti d’intensità e profondità: un dono
intero e totale.
Si dona fino a mettersi nelle loro mani attraverso
il pane e il vino fatti suo corpo e suo sangue. Nell’Eucaristia di quell’ultima
sera vi è il dono di tutto se stesso: corpo, sangue, anima e divinità.
Poche ore più tardi, quando nell’orto degli
ulivi le guardie vogliono arrestare i discepoli, egli si frappone: «Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne
vadano». Agisce così perché, come commenta Giovanni, «s'adempisse la
parola che egli aveva detto: “Non ho
perduto nessuno di quelli che mi hai dato”» (Gv 18, 9). L’amore per i suoi amici arriva a consegnarsi al
posto loro.
Il suo amore estremo raggiunge anche i nemici, per i
quali invoca il perdona, giustificandoli davanti al Padre: «Perdona loro,
perché non sanno quello che fanno» (Lc
23, 34).
Sulla croce dona anche il Paradiso al ladrone, dona la
madre a Giovanni, e infine dona il suo Spirito: nella consegna del suo soffio
vitale – «chinato il capo, consegnò lo spirito (Gv 19, 30) – il segno del dono del suo vero respiro, lo Spirito
Santo che in lui era principio di vita. Adesso davvero tutto «è compiuto» (Gv
19, 30), l’amore è stato attivo fino all’ultimo istante e ha dato il massimo di
sé: senza più lo spirito (Spirito), Gesù muore: «dopo aver amato i suoi che
erano nel mondo, li amò sino alla fine».
La prima
valenza di quel “sino alla fine” è la sua durata, fino all’ultimo istante della
vita. L’amore non è la passione di un giorno. Senza durata l’amore non è amore.
Una causa, se è vera, la si sposa per sempre. Non si cambia bandiera. Una volta
messo mano all’aratro Gesù non si è più voltato indietro, non ha abbandonato
l’impresa, anche quando gli è apparsa estremamente difficile, impossibile.
Sarebbe stata vigliaccheria. Ha amato fino all’ultimo respiro sulla croce. Alla fine può davvero dire: «È compiuto» (Gv 19, 20): ha portato a termine l’opera
che il Padre gli aveva affidato (cf. Gv
17, 4).
Ho visto
mamme che hanno accompagnato per tutta la vita il figlio dislessico. Non sarà
mai appuntata su loro petto una medaglia al merito, eppure il loro è un amore
eroico, fedele, che conosce la continuità nel tempo.
Ho
conosciuto un marito che per anni e anni ha accudito la moglie inferma,
bisognosa di tutto, senza più conoscenza. “Perché lo fai? Lasciala morire”, gli
veniva suggerito. “Ma è mia moglie”, rispondeva con semplicità. Non era
consapevole di esercitare un atto eroico, continuava semplicemente ad amare,
come aveva sempre fatto, “sino alla fine”.
Ci sono altri
tipi ancora di fedeltà nascosta. Quella di un padre o una madre che per una
vita intera ogni giorno va al lavoro per sostenere la famiglia. Si alza presto,
affronta il viaggio, col bello e cattivo tempo, fatica… Quanta monotonia,
quante poche soddisfazioni, eppure quella regolarità, che va avanti di anno in
anno, “sino alla fine”, è l’espressione di un amore sincero.
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