Anche a Gesù è
capitato così. Fino all’ultimo qualcuno ha atteso un intervento divino, un
gesto straordinario, qualcosa che avrebbe risolto positivamente il dramma così
assurdo che si stava consumando sul Calvario. Invece niente: lo hanno inchiodato,
ha gridato e nessuno è venuto in tuo aiuto, nessun miracolo, è morto. E di
quale atroce morte. E quanto straziante quel grido senza risposta alcuna.
«Non scendi dalla
croce? – ti dicono uomini crudeli – Allora non ti crediamo». Ciò che per essi è
causa di incredulità, per il centurione diventa invece motivo di fede: «Davvero
quest’uomo era Figlio di Dio!». È l’ambivalenza davanti alla sua morte. Può
essere letta come un fallimento, una maledizione, un’ingiustizia, l’assenza di
Dio che lascia andare le cose per il loro verso, senza intervenire. Oppure come
il più alto atto d’amore.
Oppure possiamo
reagire come il centurione: credere che Dio è lì, misteriosamente ma realmente
presente in quel dolore. Sulla croce si è fatto malattia, ingiustizia,
sofferenza, tradimento, peccato…, tutte realtà nostre che, in quanto Dio, non gli
appartenevano e di cui si è comunque appropriato, prendendole su di sé per toglierle a noi. È stato il più alto gesto
d’amore. Non si è visto nulla in quel momento,
soltanto silenzio e morte, ma il suo gesto d’amore era già risurrezione.
Ogni
realtà negativa, da quando Gesù l’ha presa su di te, si rivela sacramento della
sua presenza: vi è entrato, l’ha assunta, si è identificato con essa. Lo
crediamo, anche quando non vediamo il miracolo. Sappiamo che Dio è lì presente.
Non amiamo il dolore, ma Dio che si è fatto dolore, presente in ogni dolore. Si
associa a sé per vivere con lui ogni tratto negativo, in noi e attorno a noi,
con l’amore che tutto redime, primizia di risurrezione.
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