Nel
silenzio della sua cella, scavata nelle roccia, collocata nel più vasto
silenzio del deserto, aba Pafnunzio andava spesso col pensiero alla morte.
Sarebbe accaduto che un giorno, non vedendolo arrivare alla sinassi, l’incontro
degli eremiti che si teneva il sabato sera, qualcuno avrebbe camminato fino
alla sua cella e lo avrebbe trovato disteso sulla terra nuda, con le braccia
incrociate e il sorriso sulle labbra. Non che si sentisse vecchio o che
accusasse indisposizioni particolari. I digiuni, le veglie, l’aria secca del
deserto lo conservavano in buona salute. Ma prima o poi sarebbe accaduto e
avrebbe finalmente incontrato il suo Signore.
Come
sarebbe stato quel momento? Cosa gli avrebbe detto? Avrebbe voluto che il cuore
fosse libero da ogni pur minimo attaccamento, sgombro come il deserto attorno; infuocato
d’amore come lo era il cielo certe sere all’orizzonte. Avrebbe voluto che le
sue mani fossero colme di amici, di tutti quegli uomini e quelle donne per i
quali, pur lontani, aveva pregato, sofferto, sperato... Avrebbe voluto
offrirgli il mondo intero.
Uscì
infine sulla soglia della grotta e fissò il sole del tramonto, che ancora
brillava, vivo, nell’aria tersa della sera. Lo guardò scendere rapido
all’orizzonte. Stette lì, immobile, fin quando dall’alto calò la notte, sempre
più nera. Gli parve un segno dello spegnersi della sua vita.
Fu
in quel momento che gli fiorì sulle labbra la domanda: “Perché invece che
attendere la morte, che forse sarà lontana, non vivere come se l’incontro
avvenisse ogni giorno, ogni sera, ogni ora, adesso?” (I Padri
del deserto di Scite, 37)
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