giovedì 26 luglio 2012

Apa Pafunzio davanti alla morte


Nel silenzio della sua cella, scavata nelle roccia, collocata nel più vasto silenzio del deserto, aba Pafnunzio andava spesso col pensiero alla morte. Sarebbe accaduto che un giorno, non vedendolo arrivare alla sinassi, l’incontro degli eremiti che si teneva il sabato sera, qualcuno avrebbe camminato fino alla sua cella e lo avrebbe trovato disteso sulla terra nuda, con le braccia incrociate e il sorriso sulle labbra. Non che si sentisse vecchio o che accusasse indisposizioni particolari. I digiuni, le veglie, l’aria secca del deserto lo conservavano in buona salute. Ma prima o poi sarebbe accaduto e avrebbe finalmente incontrato il suo Signore.
Come sarebbe stato quel momento? Cosa gli avrebbe detto? Avrebbe voluto che il cuore fosse libero da ogni pur minimo attaccamento, sgombro come il deserto attorno; infuocato d’amore come lo era il cielo certe sere all’orizzonte. Avrebbe voluto che le sue mani fossero colme di amici, di tutti quegli uomini e quelle donne per i quali, pur lontani, aveva pregato, sofferto, sperato... Avrebbe voluto offrirgli il mondo intero.
Uscì infine sulla soglia della grotta e fissò il sole del tramonto, che ancora brillava, vivo, nell’aria tersa della sera. Lo guardò scendere rapido all’orizzonte. Stette lì, immobile, fin quando dall’alto calò la notte, sempre più nera. Gli parve un segno dello spegnersi della sua vita.
Fu in quel momento che gli fiorì sulle labbra la domanda: “Perché invece che attendere la morte, che forse sarà lontana, non vivere come se l’incontro avvenisse ogni giorno, ogni sera, ogni ora, adesso?” (I Padri del deserto di Scite, 37)

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