giovedì 30 giugno 2022

Salemi, ultima tappa / 8

 


Sant’Eugenio si fermò ad Alcamo senza proseguire fino a Salemi. Peccato! si è perso una bellissima cittadina e un altro bellissimo castello, attorniati da un paesaggio straordinario. Allora sono andato a posto suo, concludendo idealmente il mio breve viaggio siciliano.

Vi giunse Garibaldi (onnipresente in questa zona della Sicilia, come Napoleone all’Elba), issò personalmente il tricolore sulla torre del castello (è ancora lì che sventola dal 1860) e proclamò la città capitale d’Italia (per un giorno), per poi spostarsi alla vicina Calatafimi dove costrinse l’esercito borbonico alla ritirata aprendo così la strada all’unità d’Italia.

Sarebbe bello se ancora una volta si avviasse una marcia – questa volta incruenta – per l’unità d’Italia e del mondo…





mercoledì 29 giugno 2022

TuttaSicilia / 7 - Il Racconto di sant'Eugenio


 

Questi giorni il mio blog siciliano si è ridotto a sole poche foto. Eugenio de Mazenod, che non aveva la macchina fotografica, amava invece descrivere nei minimi particolari e con verve i suoi viaggi nell’Isola, a cominciare da quello nei luoghi dove sono stato seguendo i suoi passi. Li ho riletti con piacere in questi giorni. Assieme al conte Cesare de Chastellux e a una guida locale, Eugenio all'inizio del 1800 partì a cavallo da Palermo diretto ad Alcamo e Segesta:

Da Valguarnera, attraverso vie impraticabili giungemmo ad Alcamo, cittadina piuttosto considerevole: da lì dovevamo puntare su Segesta. Ci avevano raccomandati a M. l’abbé Pastori, uno degli uomini più ragguardevoli del paese, che ci accolse molto gentilmente e ci offerse ospitalità. Dopo un pasto serale molto leggero per giovani della nostra età, stanchi morti dopo un viaggio così faticoso, chiedemmo di andare a dormire. Ci condusse in una camera molto graziosa con due letti e, quantunque non fossero tanto comodi, facemmo una sola tirata fino all’alba del giorno dopo che dovevamo recarci a Segesta per essere di ritorno all’ora di pranzo.

Prima di montare a cavallo sentimmo la messa ed eccoci in viaggio attraverso i campi, in mancanza di strade tracciate: è così del resto in tutta la Sicilia. Nonostante la dolorosa impressione di dover percorrere un tratto così lungo in mezzo a terreni coltivati o destinati a semina, non ci si stanca di ammirare la bellezza di queste zone. Il profumo che sale da narcisi, timo, rosmarino, assenzio e tante altre specie di erbe aromatiche che si calpestano, la vista di oleandri e di tanti altri arbusti che altrove si tengono tanto al riparo nelle serre, allietano la vista e l’olfatto.

Eravamo entusiasti io e il mio compagno, quando costui, imponendo una pausa alla nostra ammirazione, divorato dalla fame, mi fece notare che l’uomo non si nutre di odori e di sapori, e che era tempo di cercare di mettere qualcosa sotto i denti. Ma come fare in mezzo a quel deserto? Non avevamo incontrato nessuno e la nostra guida non aveva pensato a portare al seguito qualche provvista. – Amico, gli dissi ridendo, il tuo discorso è troppo prosaico; che bisogno c’è di mangiare quando, sulle orme di tanti eroi che ci han preceduti, camminiamo come Enea… in cerca del tempio venerato dai Segestani? Chissà che non abbiamo a incontrare qualche nuovo Aceste che spegnerà la nostra sete come fece con Enea e i suoi compagni, dando loro quel buon vinello di cui si narra? – I1 mio amico sbottò a ridere e accettò bravamente la sorte, cioè prese pazienza come me.

Tuttavia il sole che dardeggiava sulle nostre teste ci metteva in condizioni di non poterne più. Vinti dal caldo finimmo per addormentarci sulle nostre rozze [cavalli deboli e malandati] che non volevano andare più avanti, quando a un tratto la nostra guida, levando un grido poderoso, ci risvegliò di botto per indicarsi il tempio che appariva dinanzi a noi in tutta la sua maestà. – Eccolo, eccolo! – gridammo anche noi, il tempio venerato da tremila anni, oggetto del culto di tante generazioni che si sono succedute. Com’è bello, sollevandosi poderoso su tante rovine che lo circondano! Che meravigliose proporzioni! Che magnifica costruzione! Spiccammo un salto per andarlo a vedere da vicino. Mi dispiace di non averne potuto misurare le dimensioni, non avendo strumenti per farlo; ma sarebbe facile saperlo consultando i libri di archeologia che le riportano. Quel che posso dire è che enumerammo 36 colonne molto alte situate a una distanza abbastanza grande le une dalle altre, perfettamente conservate e in altrettanto perfetto equilibrio. La copertura, se è mai esistita, è crollata; non rimane alcuna traccia che possa far credere che il tempio sia stato mai completato, tanto più che non si può distinguere qual era il posto dell’altare di cui si ignora la divinità a cui era dedicato. I gradini sono troppo alti per non supporre che ne manchi uno ogni due. Il frontone è sorretto da quattro colonne a cui corrispondono altre quattro nel lato posteriore. Il tempo che ha rispettato queste belle colonne ha voluto lasciare traccia delle sue unghie di ferro perché presentano tutte fori di diversi centimetri, come se fossero state divorate da innumerevoli insetti, formando uno strato ineguale che permettono ai profani, come mi sono dimostrato anch’io, di portarne via qualche pezzetto a ricordo di un ben faticoso pellegrinaggio.

Un tempio di simili proporzioni fa supporre che ci sia stato lì vicino una popolazione numerosa; infatti non abbiamo tardato a scoprire il terreno, abbastanza ampio, sul quale si estendeva la città chiamata Segesta. Pare che occupasse nella sua cerchia due colline non molto distanti da quella su cui è costruito il tempio. Chissà quante cose si troverebbero se ci si prendesse la briga di scavare! A ogni pie’ sospinto si vedono tronconi di colonne, capitelli, pezzi vari di marmo. Specialmente nell’anfiteatro si trovano le tracce dell’antico splendore della città scomparsa. Non saprei dire l’impressione che lasciò in noi il raffrontare queste rovine attestanti l’esistenza di una grande città e di una numerosa popolazione, col silenzio e la solitudine di luoghi divenuti oggi deserti senza altri esseri viventi all’infuori di alcune vacche che pascolavano nei dintorni e un pastore che la Provvidenza sembrò inviarci per non farci morire di fame, mentre una sete feroce ci tormentava ancor più vivamente. A dir vero, non ne potevamo proprio più; il mio simpatico compagno che all’epoca era dotato di un grande appetito, era annichilito in tutta la forza del termine. Chiamammo quel bravo pastore, il quale mosso dalle nostre reiterate richieste, si affrettò a mungere una vacca in un vaso enorme che riempimmo di pane, fornendoci così un pasto il più squisito che avessimo mai gustato, venuto così a proposito a soddisfare le nostre esigenze estreme.

Nonostante l’entusiasmo per la bellezza dei luoghi, bisognava pensare al ritorno se volevamo arrivare ad Alcamo giusto in tempo per andare a tavola col nostro ospite. Ci lusingavamo che l’onesto abate avesse preso le sue precauzioni per offrirci un pranzo che ci compensasse della cattiva cena della sera innanzi; ma purtroppo facevamo i conti senza l’oste, perché il nostro pranzo consistette in un piatto di maccheroni e un pezzo di carne lessa che ci fu impossibile masticare, tanto era coriacea e di pessima qualità. Io guardavo l’amico Cesare con occhi compassionevoli indovinando il tormento che doveva provare, quando ci fu portato in tavola un pollo gigante. Cesare l’afferra subito per trinciarlo, sperando di trovare il modo di saziare la fame; ma che delusione mentre con tutta la sua abilità e, devo dirlo, la sua buona volontà non riusciva a tagliare un solo pezzo di quello strano volatile. Ci riuscì finalmente, però quel che aveva resistito al filo del coltello non fu possibile vederlo cedere alla pressione dei nostri denti di vent’anni. Perché mettemmo invano alla prova le nostre mascelle: credo che avrebbero spezzato il ferro, ma fu ad essi impossibile triturare quel gallo che ci aveva di certo salutati col suo canto quando stavamo in casa. – Povero Cesare, mi dicevo, che ne sarà di te? Morremo entrambi d’inedia, e così finirà la nostra storia – . Ma no… ecco venire in tavola una fiscella di ricotta e un vaso di miele per darle più sapore: Butirum et mel comedet ci ripete il nostro ospite, scusandosi di non aver zucchero da offrirci. Non perdemmo tempo in considerazioni, e quello fu il piatto forte che ci salvò la vita.

Dirò una parola della città di Alcamo di cui il nostro abbé Pastori era governatore? È situata in bella posizione, ma è stata costruita male. Ha una popolazione di circa 13 mila abitanti: ha molte chiese e diversi conventi di monache (di clausura) e di suore. Nella chiesa dei Recolletti (francescani riformati) c’è un bellissimo quadro di Raffaello (è di un pittore chiamato il «Raffaelto di Sicilia»): una Madonna in trono con sulle ginocchia il Bambino Gesù e ai lati s. Giuseppe e, per un anacronismo usuale nei pittori, s. Francesco, mentre uomini e donne stanno davanti in ginocchio. Peccato che una pittura così bella sia stata collocata in una località così remota!

(…) il giorno dopo di buon ora riprendemmo la strada che avevamo seguito venendo per Partinico e Monreale, da dove scendemmo a Palermo per riposarci, in casa del mio amico dalle fatiche del viaggio e per rifarci con un buon pranzo dei digiuni e delle privazioni dei giorni precedenti.



martedì 28 giugno 2022

TuttaSicilia / 6


 


La Sicilia è (anche?) mare! E che mare! “Lodate mari e fiumi il Signore…”.

È un invito alla contemplazione.







lunedì 27 giugno 2022

TuttaSicilia / 5

 


Incantati dalla catena dei monti Peloritani, fino a Trapani. Le colline ricordano quelle del Chianti. Coltivate con razionalità e fantasia, olivi, frumento, viti, la dipingono di colori tenui e densi insieme, esaltati dal sole.

La punta estrema: Erice, sospesa tra cielo e terra, borgo armonioso, ricco di castelli, chiese e monumenti.

La Sicilia continua a sorprendermi.





domenica 26 giugno 2022

TuttaSicilia / 4

 


Spesso i luoghi parlano più delle parole. E di luoghi la Sicilia me ne sta regalando tanti.

Mazara del Vallo con l’antico arco del castello normanno, la cattedrale, la kasba, le spiagge…

Marsala con le saline, il centro città inaspettatamente ricco ed elegante.

Le storie antiche, le persone incontrate… quanta bellezza, tutta un dono per noi.






sabato 25 giugno 2022

Senza mezze misure


Inizia il grande viaggio verso Gerusalemme. Gesù lascia la sua terra, la Galilea dalle dolci colline verdi, per affrontare sulle montagne rocciose e brulle gli ultimi grandi eventi. Impresa ardua, la sua. Esige una decisione coraggiosa. Si tratta di fare la volontà del Padre fino in fondo, di compiere il gesto supremo di donare la vita. Si incammina senza alcun tentennamento, «prendendo la decisione» («rese duro il suo volto», come scrive letteralmente il vangelo), per affrontare la prova e la morte.

Altrettanto serio, duro ed esigente sarà il cammino per quanti lo seguono. Anche a noi chiede la stessa grinta (ci vuole proprio la “faccia tosta”), il medesimo coraggio, altrettanta determinazione. Per questo mette subito in chiaro le condizioni del viaggio: prontezza a perdere tutto e a vivere nella precarietà, alla giornata, fidandosi pienamente di Dio, senza “tana” né “nido”; distacco da parenti e amici; perseveranza nell’andare avanti, costi quello che costi. È addirittura più esigente del profeta Elia. Si era appena mostrato più indulgente di lui, che aveva fatto cadere il fuoco dal cielo sui cento inviati del re di Samaria. Gesù, al contrario, rimprovera l’intolleranza dei focosi «figli del tuono» che volevano fare altrettanto con gli abitanti del villaggio di Samaria che gli avevano rifiutato l’accesso. Ora però si mostra più duro di Elia. Questi accondiscese alla richiesta di Eliseo, che domandava di congedarsi dal padre prima di seguirlo. Gesù invece rifiuta di accogliere la medesima richiesta da parte di uno che domanda di seguirlo. Sono così pochi quelli che vogliono seguirlo e a quei pochi pone ostacoli, mostra la gravità della decisione e presenta la durezza della sequela. Si vede proprio che non si accontenta delle mezze misure: ognuno di quelli che chiama risponde con un “sì, ma”, ponendo clausole... Non si tratta di metterlo a confronto con gli altri, di amare o non amare i parenti e gli amici. Siamo su tutto un altro piano: lui è lui e basta, è semplicemente Dio! E tale vuole che lo riconoscano i suoi discepoli. È padre, madre, fratello e amico e sposo. È la luce dei nostri occhi, il nostro respiro, il nostro cibo, la nostra vita. Si può vivere senza padre, senza madre, ma non senza di lui: l’Unico, il Tutto. Non possiamo appoggiarsi su nessun altro, cercare nessun altro all’infuori di lui. «Con una certa meravigliosa violenza – scrive Cabasilas –, con tirannide amica, a sé solo ci attira, a sé solo ci unisce». Come seguirlo se non si è innamorati pazzi e se, come gli innamorati, non si hanno occhi che per l’amato? Ci sarà poi il tempo di volgere lo sguardo d’amore e di misericordia sugli altri, ma sarà il tuo sguardo, il tuo amore. Sarai lui in noi ad amare.

venerdì 24 giugno 2022

TuttaSicilia / 3

 


La Cappella Palatina, gioiello normanno, non è soltanto un’opera d’arte, un museo, un centro culturale. È nata come “cappella”, anche se “di palazzo”. Dalle sue origini, per volere del re, è parrocchia, e tale rimane anche oggi, anche se l’estensione territoriale è limitata al palazzo! Così, oltre ad ammirare i mosaici, che raccontano soprattutto di Pietro e Paolo e del loro rapporto profondi di comunione, oggi le ho restituito il suo ruolo di cappella celebrando la messa nella festa del Cuore di Gesù. Le storie evangeliche sembrava tornassero a rivivere…



Il Palazzo dei Normanni costudisce anche l’osservatorio astronomico. La carissima Ileana, storica dell’astronomia e direttrice del museo astronomico ci ha guidato nei tre secoli di osservazioni celesti, portandoci in un mondo diversissimo da quello della Cappella Palatina e affascinante come quello.



Di nuovo un salto indietro, questa volta di 2.500 anni, fino all’anfiteatro e al tempio dorico di Segesta. Scenario di una bellezza unica, tra colline di grano, vigneti, olivi, distese tra monti e mare. Luogo d’incanto, silenzio, dove storia e natura si amalgamano in armonia perfetta.

Per chi ha il cuore puro tutto canta la gloria di Dio.




giovedì 23 giugno 2022

La lezione della cattedrale / 2


Ti abbacina con il suo splendore d’arte e di luce. Non puoi fermarti sui particolari, devi abbracciarla con un unico sguardo e lasciarti affascinare dalle sue linee armoniose.

Salendo sui tetti lentamente puoi renderti conto di mille dettagli. Lassù, fuori dalla visuale, artigiani anonimi hanno cesellato capolavori nascosti, sapendo che ben poche persone e raramente li avrebbero visti. Perché? Forse per amore delle cose fatte bene, con passione, forse per dare gloria a Dio…

M’insegnano che ogni azione domanda d’essere cesellata a perfezione, anche se gli altri non lo sanno, gratis, per amore…

Che lezione la cattedrale di Palermo!


mercoledì 22 giugno 2022

La grotta "carismatica" di Santa Rosalia / 1


A Palermo si celebrano due feste di santa Rosalia, il 15 luglio (ritrovamento del corpo) e il 4 settembre. Ma ogni volta che si visita il suo santuario sul monte Pellegrino è festa, e oggi la festa si è rinnovata.

A raccontarci la storia della santa è stato Pietro, priore della Confraternita della Madonna della cintura (quella data a santa Monica, ma la Madonna doveva averne più d’una, se ce ne sono altre in giro, anche se quella più importante si venera a Prato). Pietro ha costruito anche una bella statua di santa Rosalia che si venera nella chiesa di san Nicola da Tolentino, affidata agli Oblati. Questa mattina ne parlava come di una persona amica con la quale ha una grande familiarità…

Ma anche a chi non è molto familiare con lei, la santa ispira immediatamente fiducia e confidenza, ritratta com'è, giovane, bella, indifesa, sorridente. Non mette soggezione, si mostra subito vicina...

La santa ha lasciato un’impronta indelebile nella grotta del monte Pellegrino dove ha vissuto, trasformandolo in un luogo carismatico, come accade a tanti altri luoghi abitati dai santi. Per secoli questi luoghi sono stati meta di pellegrinaggio di migliaia e migliaia di fedeli che lì hanno pregato, hanno pianto, si sono affidati a Dio…, arricchendoli di fede e di pietà e contribuendo a renderli ancor più “carismatici”.

La liturgia del 5 settembre la canta “sposa del Figlio di Dio” (dopo aver rifiutato di essere sposa del conte Baldovino) e prega perché la Chiesa – ognuno di noi – sia fatta dallo Spirito Santo degna sposa del Figlio di Dio. Che santa Rosalia ci accompagni in questo cammino verso un rapporto d’amore sempre più autentico con il Signore.




martedì 21 giugno 2022

Quel tabernacolo all'angolo della strada

 


Un tabernacolo sull’angolo della strada, davanti al palazzo di Marco Datini, mostra Maria col Bambino attorniata da angeli e santi. Potrebbe essere stata dipinta da Niccolò di Pietro Gerini tra il 1300 e il 1400 quando l’artista toscano si trovava a Prato ad affrescare proprio il palazzo Datini.

Non so se il tabernacolo ha una particolare denominazione, in famiglia è noto come la Madonna dell’Aiale, dal nome della strada che si parte proprio dal tabernacolo. Non ha soltanto un evidente valore artistico, come appare soprattutto dopo un recente restauro, ma affettivo e devozionale. Qui infatti i miei genitori venivano nel mese di maggio a recitare in rosario insieme agli abitanti del rione. Oggi sarebbe inimmaginabile. Dovremmo comunque essere capaci di inventare nuove espressioni di pietà e di vita mariana, come hanno saputo fare i nostri antichi...

lunedì 20 giugno 2022

L'Ucraina com'era / 2



Ho assistito ad entusiaste manifestazioni popolari di fede. Il giorno della Trasfigurazione, che il calendario orientale colloca il 19 agosto, è anche il giorno del ringraziamento per i frutti della terra. Ogni famiglia va a messa con un mazzo di fiori guarnito con una mela o un altro frutto. A L’viv la chiesa della Trasfigurazione è troppo piccola per contenere la gente. (Anche le altre chiese di città e di villaggio sono troppo piccole; viaggiando vedo più gente fuori di quanta ce n’è dentro). Quest’anno ricorre il decimo anniversario della riapertura della cattedrale di L’viv. Per l’occasione l’afflusso della gente è più numeroso del solito. Giungono dalla varie parrocchie, in processione, con in testa gli stendardi.

L’unico modo per poter seguire la celebrazione stando fuori, come capita a me, è quello di seguire il movimento degli stendardi che, sulle gradinate e nella piazza, si muovono a ritmi cadenzati, quasi prostrandosi ogni volta che dentro si ripete il nome della Santa Trinità.

Al termine della Santa Liturgia il Patriarca esce a benedire i frutti della terra. È una benedizione consistente: gli inservienti sono armati di capaci secchi d’acqua. Quindi la processione: in testa gli stendardi portati da uomini e donne in costume, segue uno stuolo di monache, i preti, il patriarca benedicente e infine gente a non finire, che si ammassa in maniera caotica. Gli uomini cantano a squarciagola con voci potenti: i cosacchi dovevano cantare allo stesso modo! È una festa di massa. Mentre si attraversa la città verso la cattedrale, uno dei presenti, sapendomi italiano, mi grida: “Se Bertinotti fosse qui si prenderebbe un infarto! Guarda cos’è l’Ucraina dopo 70 anni di comunismo”.

A Bertinotti bisognerebbe far vedere anche il rifiorire delle chiese, una volta trasformate in magazzini, depositi, cinema, che ora conoscono un nuovo splendore; oppure le chiede nuove, con le loro cupole luccicanti, che spuntano in ogni villaggio, al posto di quelle distrutte. Sarebbe meravigliato come si meravigliarono tanti quando, il 17 settembre 1989, per la prima volta i cristiani si riunirono in piazza. “Ma da dove spuntano, si domandava la gente; non erano stati annientati?”. Sì, Bertinotti sarebbe contento di vedere un popolo in festa, che può esprimere in libertà la propria fede.

La volontà di proclamare la fede si è manifestata anche nella ricostruzione del santuario di Sarvanyzia. Nel mese di luglio vi sono convenuti due milioni di persone, con tutti i vescovi, per la sua inaugurazione e per la celebrazione del Giubileo. Andando a visitare il santuario mi sono chiesto dove possono aver messo tanta gente. Si viaggia con mezzi di fortuna, non ci sono alloggi...

La fede è quasi ostentata perché è stata a lungo provata. Vado a visitare la tomba del cardinale Josyf Slipyj, i cui resti sono stati da poco riportati in patria. Con i suoi 18 anni di deportazione in Siberia e con il successivo esilio è il simbolo di una Chiesa perseguitata, di migliaia di cristiani uccisi, di diritti conculcati. La Chiesa ha vissuto in clandestinità fino alla sua rinascita alla fine degli anni Ottanta.

Suor Solomia, una mia ex alunna che ho ritrovato con gioia nella sua terra, mi racconta di quando, dopo la morte del padre costretto a passare alla Chiesa ortodossa per far vivere la famiglia, la mamma decise di tornare alla Chiesa cattolica. La sua casa divenne luogo di incontro e di preghiera. Il prete arrivava di nascosto verso le undici di sera e con lui, a piccoli gruppi, la gente dei villaggi vicini. Il prete confessava e teneva la catechesi. Alle quattro del mattino la messa e allo spuntare dell’alba la bambina, insieme ad altri ragazzi portava nuovamente al sicuro il prete. Ricorda altri preti picchiati a sangue, le perquisizioni della polizia, le icone e i libri di preghiera nascosti nei posti più impensati...

Padre Jvan racconta di quando disse alla mamma: “Questa notte avremo la messa in casa”. Tutta la famiglia si raccolse, aspettando il prete. Solo allora Padre Jvan cominciò a indossare le vesti liturgiche e i suoi seppero che era prete da tempo.

La mamma di Suor Volodymyra seppe dalla televisione, grazie ad una intervista fatta subito dopo la perestrojka, che sua figlia era suora. Fu una sorpresa anche per i colleghi d’università dove lei lavorava. Per nove anni era riuscita a condurre la sua vita consacrata nella clandestinità, a riunirsi con le consorelle per il ritiro mensile, ad incontrare ogni settimana la superiora per i colloqui di formazione.

Sembrano racconti d’altri tempi e sono appena di ieri.

Mi dicono che sono sempre troppo ottimista e che vedo solo il bene e il bello. Ho visto anche l’arretratezza economica e la povertà. Dopo dieci anni dalla caduta del comunismo l’Ucraina è andata indietro invece che andare avanti. La classe politica è composta da ex comunisti che in pochi anni hanno dilapidato i beni dello stato, segno che anche prima erano guidati non da una ideologia, ma dalla sete del potere e dal proprio interesse. La corruzione è alle stelle. I salari sono bassissimi, del tipo 10-15 dollari al mese. Ho avuto anche l’impressione di un certo immobilismo, quasi una rassegnazione collettiva, frutto di una antica e sistematica repressione di ogni tipo di inziativa. È ugualmente evidente l’impostazione di modelli consumistici occidentali che finiranno per recare danni ancora peggiori.

Anche nel campo ecclesiale non mancano le ombre. Le vocazioni sono numerose. In chiesa non ci sono soltanto donne e anziani, ma anche uomini e giovani. Tuttavia il soffio nuovo del Concilio tarda ad arrivare. La rapida evoluzione della società esige una Chiesa capace di cambiare, di adattarsi, di offrire risposte nuove a bisogni nuovi. L’ottanta per cento della popolazione non appartiene a nessuna Chiesa e manifesta una forte esigenza di Dio, domanda un nuovo tipo di evangelizzazione a cui i cristiani forse non sono pronti, lasciando terreno libero alle sette che arrivano forti del loro dinamismo e delle risorse economiche.

Tutto questo non può tuttavia esimerci dal godere di una ritrovata libertà, dal condividere gioia ed entusiasmo di un popolo che è rimasto fedele nella persecuzione e che ora ha bisogno di esprimere la propria fede nelle forme tradizionali del passato troppo a lungo represse.

Una nuova primavera può sbocciare anche qui. Ne vedo il segno nelle 120 suore che hanno seguito il mio corso, appartenenti a istituti ucraini di rito bizantino ucraino. Giovanissime, si muovono con un certo impaccio negli abitoni riesumati dal tempo precedente la persecuzione. Il loro vestito mi sembra la parabola di un imbrigliamento in strutture inadeguate, che non consente loro di esprimersi con tutta la carica di novità che portano in sé. I loro istituti non hanno conosciuto il rinnovamento conciliare e continuano con le rigide regole di una volta.

Le guardo, immobili e raccolte, mentre cantano per ore le loro preghiere su melodie che si intrecciano dolcemente. Ne sono incantato. Mi travolgono nella loro contemplazione. Mi sembrano germogli nuovi di vita che a fatica tentano di spuntare da un terreno duro e arido. Basterà una pioggia soltanto, l’acqua fresca dello Spirito, per sciogliere la terra e far esplodere la vita in una nuova primavera.

 

domenica 19 giugno 2022

L'Ucraina com'era / 1


 

L'viv, agosto 2000

Avrò avuto 15, 16 anni quando lessi I cosacchi di Tolstoj. Di quel romanzo ricordavo soltanto che le ragazze, quando si ritrovavano tra di loro nei giorni di festa, per passatempo mangiavano i semi di girasole. Avevo completamente dimenticato quella lettura della mia giovinezza. Mi è tornata in mente qui nella terra dei cosacchi ucraini, quando, una domenica pomeriggio, ho visto le ragazze mangiare i semi di girasole tostati. Me ne hanno offerto una manciata: li ho assaggiati per la prima volta. Hanno il sapore delle sterminate pianure assolate e della fertile terra nera. Vanno strusciati in mano con calma, guardando le mandrie che si muovono appena. Vanno gustati stando chinoni per terra, con davanti una bacinella piena di mele, in paziente attesa che qualche improbabile passante sulla strada deserta si fermi a comprare i frutti dell’orto.

La vita si muove al rallentatore in Ucraina. Le automobili, che la Fiat ha costruito sul modello della vecchia 1500, sono rare. La gente si muove a piedi, lungo i cigli delle strade, per chilometri e chilometri; o con i carri trainati dai cavalli; o in bicicletta: uno guida e l’altra sta seduto sulla canna; o aspetta paziente alla fermata dell’autobus, fuori paese. Per chi, come me, è abituato alla fretta occorre scalare le marce ed entrare nel ritmo calmo e meditativo di questo Paese, il più grande d’Europa, dopo la Russia, con appena 50 milioni di abitanti.

Vi ho passato 15 giorni soltanto, troppo pochi per conoscere un mondo così lontano dal nostro. Ma la convivenza e il costante colloquio con la gente del posto mi ha consentito di far breccia nell’animo ucraino, almeno un po’, almeno lo spero. Mi sono rimaste immagini indelebili scolpite nel cuore, con sentimenti forti e contrastanti.

Il giorno stesso del mio arrivo inizio a dare un corso intensivo di spiritualità nel seminario bizantino ucraino di Rudno. Già dalle prime battute avverto una diversa sensibilità. La traduttrice, suor Agostina, medico che si sta specializzando in omeopatia a Roma, mi blocca immediatamente: «Lei ha detto “la Trinità”, ma io devo tradurre “la Santa Trinità”». Sono appena da poche ore in questo mondo orientale e già mi rendo conto di apparire un rozzo latino pragmatico.

Le liturgie, a cui partecipo ogni giorno, sono un ininterrotto canto melodico inframmezzato da prostrazioni, segni di croce, incensi... L’iconostasi, con le sacre immagini dorate, appare preludio di paradiso. Non capisco una parola, ma lì rigorosamente in piedi dal principio alla fine, immobile tra la gente, i preti, i diaconi, le monache, col passare delle ore mi sento avvolto da un’aria di Cielo. Si respira il sacro. All’inizio faccio come una volta le nostre nonne: dico il rosario o lascio scorrere i grani della ciotky, la corona dei monaci che mi hanno regalato, con la quale si ripete la preghiera del cuore. Poi, lentamente, entro nella preghiera liturgica, fino a concelebrare nel rito bizantino ucraino, con evidente gioia dei presenti, oltre che mia.

La storia, o forse la leggenda, racconta che quando queste popolazioni pensarono di lasciare il paganesimo il principe Volodymyr inviò i suoi messi per il mondo in cerca della religione più adatta. Dopo aver scartato per molteplici motivi ebrei musulmani e latini, la scelta cadde decisamente sui bizantini: il canto, gli ornamenti, gli ori, gli incensi, le icone presentavano una fede dall’insuperabile suggestione estetica.

Le liturgie - le “Sante Liturgie”! - oltre ad essere belle sono interminabili. Nelle cappelle di monaci e monache nessuno si muove, ma nelle chiese, con la gente, è diverso. In chiesa, anche durante la santa liturgia, ognuno si sente a casa propria, può andare e venire con una spontaneità da noi inusitata. Le file ai confessionali sono costanti. C’è che prega davanti ad una icona, chi è prostrato in un angolo qualsiasi della chiesa. Il dialogo cantato ininterrottamente tra diacono, prete e coro, esclude sistematicamente ogni altra possibilità di partecipazione al rito da parte della gente che non siano i segni di croce, anche se questi, da soli, sono capaci di riempire le ore della celebrazione.

Nella chiesa dei Bernardini a L’viv mi sono fermato a contemplare una icona vivente: un uomo maturo, nascosto dietro una colonna, in ginocchio, le mani giunte, gli occhi chiusi, immobile come una statua. Sembrava fuori del tempo. Mi ricordava il contadino in ginocchio immortalato da Caravaggio nella tela della Madonna dei pellegrini. Non ho osato fotografarlo, anche se la tentazione era forte: sarebbe stato una profanazione.

Nella cattedrale di san Giorgio una mamma fa cenno ad uno dei preti che distribuisce la comunione di dare l’Eucaristia - il pezzetto di pane inzuppato nel vino - alla sua bambina. Avrà poco più di tre anni, la piccola; come tutti i bambini ha ricevuto la prima comunione il giorno stesso del battesimo. Dopo che il sacerdote si è abbassato fino alla bambina e l’ha comunicata, la mamma la prende in braccio e, accarezzandola, comincia con lei un dialogo affettuoso. Chissà cosa le dirà; le parlerà di Gesù che è venuto in lei... Vedo che la bambina sorride contenta.

Nel santuario di Sarvanyzia, la messa è celebrata davanti ad una grande spianata: la gente raccolta sotto l’ombra degli alberi, è troppo numerosa per poter essere contenuta dalla chiesa. Quando il prete si fa avanti sul sagrato per proclamare il vangelo mi si para davanti una scena commovente. I bambini corrono su attorno a lui, poi gli uomini, le donne, fino a formare un colorito bouquet di fiori, pronto ad accogliere la rugiada della Parola. Mi sembra l’immagine di Gesù attorniato dalla folla che vuole vederlo da vicino, che vuole toccarlo perché da lui emana una forza misteriosa.

Mi sono lasciato assorbire dal silenzio di una piccola e semplice cappella dei monaci Studiti, e mi sono fermato nella chiesetta di legno di un paese di campagna, gomito a gomito con la gente che esprime la sua fede adornando le parete con i quadri e i drappi più diversi e cantando antiche melodie piene di malinconia.

 

 


sabato 18 giugno 2022

Date voi stessi da mangiare

Le folle accorrono perché hanno sete di verità. Quante menzogne, quanto smarrimento, quanta paura. Abbiamo bisogno di una luce che sazi la mente, dilati il cuore, dica il perché delle cose, apra al senso della vita, indirizzi sul retto cammino, infonda sicurezza. Per questo Gesù parla a loro e a noi del Regno di Dio e della trasformazione che esso è opera. Le folle accorrono perché vogliono essere guarite dalle malattie. Sentiamo la fragilità, la precarietà del nostro vivere. Siamo tutti ammalati nel corpo e nello spirito, tutti bisognosi di cure. E Gesù risana tutti.

Le folle che accorrono tornano a casa sanate e sazie di verità e di cibo. Egli dà loro da mangiare pane e pesci, pane e companatico. È attento a ogni nostra esigenza. Per questo ci ha insegnato a chiedere il Regno di Dio e il pane quotidiano, il compiersi della volontà del Padre e il perdono dei peccati. Ci accoglie come siamo, con i nostri bisogni concreti, che vuole soddisfare.

Ma più di tutto abbiamo fame e sete di Dio, e Gesù lo sa. Tutto passa. Egli solo rimane. E noi vogliamo rimanere, oltre la caducità delle cose, oltre la parabola bella e fugace della nostra vita sulla terra. Godiamo delle brevi gioie che Dio ci mette sulla nostra strada, siamo colmati ogni giorno dei suoi doni che accogliamo con gratitudine. Ma aneliamo ad altro, più grande, più vero: alla pienezza di vita. Gesù lo sa. Per questo Gesù non ci offri soltanto pane e companatico, ma anche e soprattutto ciò che in essi è raffigurato: l’Eucaristia. Ci nutre di sé. Giorno dopo giorno ci nutre del pane della vita e si fa nostro viatico, cibo che ci sostiene nel viaggio e ci dà forza per camminare verso la meta. Ogni giorno ci assimila a sé, ci fa sempre più simili a sé, e il suo cibo diventa pegno di vita eterna, della vita di Dio in noi, di noi in Dio.

Infine il comando: «Date voi stessi da mangiare», che anticipa il «fate questo in memoria di me». Va verso le folle e le nutra di pace, di luce, di vita, invitando anche noi a fare altrettanto. Chieda che abbiamo per loro l’amore che egli hai per noi. Con l’Eucaristia ci fa sé perché vuole operare ancora, attraverso di noi, e donarsi alla nostra gente. Siamo noi le sue mani, il suo cuore, la sua bocca. Se non crediamo che ci sarà possibile compiere il suo gesto di dono che sazia, vuol dire che non crediamo abbastanza a quanto opera in noi con l’Eucaristia.

venerdì 17 giugno 2022

Gli Oblati dell'Ucraina


Trent’anni anni fa l’Ucraina acquistava l’indipendenza dall’Unione Sovietica. Gli Oblati polacchi erano presenti già da due anni, venuti per sostenere i cattolici polacchi. Mentre loro pregavano in polacco, gli ortodossi pregavano in russo e i greco-cattolici in ucraino. Ma la maggior parte degli Ucraini non pregava affatto: dopo settanta anni di comunismo, erano senza religione alcuna. Presto gli Oblati si sono sparsi in tutto il Paese come autentici missionari. Hanno lasciato lingua e tradizione polacche e hanno creato la liturgia latina in lingua ucraina (lingua bandita dall’Unione Sovietica a favore di quella russa), cominciando col tradurre il Padre nostro.

Quando nel 2000 andai a Obukhiv trovai una piccola cappella e un cantiere di lavoro per costruire casa e chiesa. Ad accogliermi c’era Padre Piotr. Tre anni prima, quando ancora abitava a Kiev, vide arrivare i pochi cattolici di Obukhiv che chiedevano la presenza di un prete nella loro città. Prese a fare la spola tra Kiev e Obukhiv fino a quando domandò ad una famiglia di accoglierlo nel suo appartamento. Poco dopo ne affittò uno al 12° piano di un palazzo di periferia, dove celebrava la messa, tenevano le riunioni e le catechesi. Quando tornai nel 2010 trovai una grande chiesa e una grande casa, cuore della missione oblata in Ucraina, con nove comunità sparse in tutto il Paese. La chiesa era l’unica parrocchia della città e della regione attorno, 100.000 persone di cui soltanto 200 cattolici.

In quella occasione incontrai 30 degli Oblati, quasi tutti sui trenta, quarant’anni, provenienti da Czerniców all’estremo nord dell’Ucraina, al confine con la Russia, e dalla Crimea all’estremo sud. Hanno “parrocchie”, chiamiamole così, di 200, 400 chilometri di diametro, ognuna con poche decine di fedeli. Fanno ore di viaggio per incontrare sette, otto cattolici. In alcune zone, in questa immensa terra, costituiscono l’unica presenza della Chiesa. Li trovai pieni di entusiasmo perché vedevano crescere la comunità di cristiana di giorno in giorno. Oggi sono ancora al loro posto, fedeli alla loro missione.

giovedì 16 giugno 2022

La cosa più bella di oggi


Una cosa bella di oggi? Sono così tante che è difficile scegliere.

La meditazione fatta insieme su Gesù Via che si fa Viatore e ci conduce verso il Padre… 

La "scoperta" di tanti giovani studenti di medicina che si organizzano per assicurare un aiuto ai bambini poveri ammalati e alle loro mamme...

Oppure una reazione al libretto I magnifici tre: “Ciao Fabio. Grazie per aver scritto sui magnifici tre. Ho letto il libro un po’ alla volta e ho finito ieri. A dire il vero sono entrato un po’ in crisi. Mi sono visto tanto piccolo di fronte a questi tre giganti. Erano veramente dei santi, e io invece... Mi consola il fatto che Dio mi ama così come sono. Grazie ancora”.

Forse l’immagine più bella di oggi è quella dei bambini, a decine, che terminate le scuole iniziano i campi estivi sui prati del Vivaro, in piena natura, come veri liberi figli di Dio…


mercoledì 15 giugno 2022

La Regola benedettina in 10 punti



Dopo Francesco a Greccio e Fontecolombo, oggi Benedetto a Subiaco. Un altro luogo “carismatico”, che custodisce le intuizioni della Regola benedettina. Mentre mi lascio avvolgere dall’architettura e dagli affreschi, ripasso i 10 punti nei quali 20 anni fa pretesi di sintetizzare la grande Regola:

1. Una vita evangelica

Tutta la Regola è posta all’insegna dell’ascolto: «Ascolta, figlio…» (RB Prologo 1). L’invito orienta primariamente verso l’abate, ma egli è solo l’intermediario di un ascolto più profondo: quello della Parola di Dio, del Signore che parla: «Ascoltiamo la voce di Dio che ogni giorno si rivolge a noi…» (RB Prologo 9). «Che cosa vi può essere di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci chiama?» (RB Prologo 19). (Il silenzio è la condizione per l’ascolto…: RB  7).

Si tratta di diventare discepoli della Parola, ascoltandola, accogliendola, mettendola in pratica (RB Prologo 1). «Il Signore aspetta che noi ogni giorno rispondiamo con i fatti ai suoi santi ammonimenti» (RB Prologo 35). Benedetto invita a non scostarsi mai dal magistero di Dio, ma piuttosto di perseverare nel suo insegnamento (cfr RB Prologo 50).

Cristo diventa così il centro del progetto monastico. Il monaco non deve avere «assolutamente nulla più caro di Cristo» (RB 5,2). La Regola si chiude con l’ammonimento: «I monaci… nulla assolutamente antepongano al Cristo» (RB 72, 11).

2. Una vita in cammino

Il monaco è colui che accoglie incondizionatamente l’invito del Signore ed è pronto a seguirlo. Di qui l’idea di un cammino da intraprendere senza indugi e senza mezzi termini, con grande serietà e radicalità. L’intera vita monastica è sotto l’immagine del viaggio: «Procediamo sulle sue vie, sotto la guida del Vangelo» (RB Prologo 21).

Il monastero benedettino diventa un’esigente scuola per porsi al servizio di Dio, un luogo di formazione al cammino verso Dio. Uno dei tratti caratteristici per il discernimento della sua vocazione è «se egli cerca veramente Dio» (RB 58, 7). Ha come obiettivo quello di condurre ognuna delle persone verso la vita eterna. La vocazione monastica si inserisce così nel grande discorso del ritorno di tutta l’umanità a Dio dopo l’allontanamento prodotto dal peccato.

3. Una scuola con un maestro e una Regola

Naturalmente anche questa come ogni altra scuola ha un suo maestro, ed è costituita sotto il suo magistero e la sua guida: l’abate. Come in ogni altra scuola anche la «schola Dominici servitii» possiede anche un proprio testo: la Regola, che ha un valore enorme e a cui anche l’abate soggiace. La comunità benedettina è quindi costituita dall’obbedienza all’abate e alla regola.

4. L’abate, presenza di Cristo Maestro

L’importanza del ruolo dell’abate risiede nel fatto che è visto come la presenza stessa del Cristo in mezzo ai suoi discepoli. L’abate occupa il posto di Cristo, come dice espressamente la Regola, fin dal secondo capitolo: «Per fede sappiamo che nel monastero tiene le veci di Cristo; poiché viene chiamato con il suo stesso nome, secondo la parola dell’Apostolo: Voi avete ricevuto uno spirito di figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abba, Padre» (RB 2,3). Al termine della Regola si riafferma ugualmente tale visione di fede: «L’abate, che fa le veci di Cristo, sia chiamato “signore e abate”, non perché egli se ne arroghi il titolo, ma per onore ed amore di Cristo» (RB 63,13). Ritroviamo così il prototipo del gruppo dei Dodici attorno a Gesù.

La Regola addita comunque la presenza di Cristo non soltanto nell’abate, ma anche in tutti i fratelli del monastero, negli ospiti («Tutti gli ospiti  che giungono al monastero siano accolti come il Cristo in persona, poiché un giorno egli ci dirà: Ero forestiero e mi avete ospitato»: RB 53,1), negli infermi («Prima di tutto e soprattutto ci si deve prendere cura dei fratelli malati, servendoli veramente come Cristo in persona, poiché egli stesso dice: Ero malato e mi avete visitato»: RB 36,1-2) …

5. La vita in comune

La centralità dell’abate e la gerarchizzazione del monastero non escludono i rapporti orizzontali tra i monaci. Piuttosto li ordina. Nella Regola appare per 25 volte la parola congregatio, ossia i monaci sono persone che vogliono compiere un cammino insieme e per questo si sono radunati attorno ad un abate. Benedetto scrive la sua Regola per i cenobiti, per «coloro che vivono insieme» (RB 1,2). La scuola è una società di fratelli: il termine appare un centinaio di volte contro le 36 del termine monaco.

La Regola sembra fare intravedere una evoluzione della concezione di comunità. All’inizio la comunità è vista piuttosto in funzione della formazione dell’individuo, seguendo l’eredità dell’esperienza del deserto. Alla fine i capitoli 67-72 testimoniano una differente concezione della comunità, con tratti maggiormente orizzontali. Si può quindi supporre una evoluzione dell’esperienza di san Benedetto, che lo ha portato a poco a poco a scoprire il valore intrinseco della comunità.


6. Le relazioni improntate dalla carità fraterna

Pur nella gerarchizzazione dei compiti possiamo notare la profonda coscienza di uguaglianza tra tutti i membri del monastero. «L’abate non faccia distinzione di persone in monastero. Non ami uno più dell’altro (...). Non anteponga mai il nobile a chi è entrato in monastero venendo dalla condizione di schiavo (...). E se, per esigenza di giustizia, l’abate decide di promuovere un fratello, egli lo faccia prescindendo dalla considerazione della classe sociale cui il monaco apparteneva. Per il resto, ciascuno tenga il proprio posto, perché schiavi o liberi tutti siamo uno in Cristo (...). Infatti presso Dio non c’è parzialità. (...) Uguale per tutti sia dunque la carità dell’abate» (RB 2,16.22). Tra tutti deve esserci una gara nello stimarsi a vicenda (cfr RB 63,17).

7. L’obbedienza, il silenzio e l’umiltà

Al cuore della proposta spirituale della Regola c’è l’obbedienza, il silenzio e l’umiltà. L’obbedienza è la via maestra del ritorno a Dio, il modo per rinunciare alla propria volontà, per compiere soltanto il volere di Dio e per servire Cristo Signore (cfr RB Prologo 2-3.6). La Regola si mostra convinta «che unicamente per questa via dell’obbedienza [i monaci] andranno a Dio» (RB 71,2). «Appena un superiore ordina loro qualcosa, come se fosse veramente comandato da Dio, non possono sopportare alcun indugio nel compierla. (…) Uomini di simile tempra interrompono dunque all’istante le loro occupazioni; si staccano dalla loro propria volontà, subito pronti… con un’obbedienza che  mette le ali ai piedi. (…) L’ordine dato dal maestro e la perfetta esecuzione del discepolo procedono insieme, rapidissimi, con una simultaneità sorprendente» (RB 5,4.7-9). È sottomissione all’altro, non soltanto all’abate, fino all’obbedienza reciproca tra tutti i monaci, in conformità all’esempio di Cristo, come frutto ed espressione del vicendevole amore: «L’obbedienza è un bene così grande che i fratelli devono sentire il bisogno non solo di offrirla all’abate, ma anche di scambiarsela tra di loro» (RB 71,1). L’obbedienza in questo caso diventa sinonimo di rapporto di mutua sottomissione.

Il cammino spirituale è descritto come progressione nella via dell’umiltà, suddivisa in dodici gradi. Essa porta a non agire più «per timore dell’inferno ma per amore del Cristo e per l’abitudine al bene e la dolcezza che deriva dalla pratica delle virtù» (RB 8,69).

8. L’amore nell’itinerario spirituale del monaco

La Regola mette l’amore come ultimo dei gradini dell’umiltà e al culmine dell’ascesi spirituale (cfr RB 7). Esso, nello stesso tempo, è anche il primo degli strumenti per ogni opera buona: «Prima di tutto, amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. E amare il prossimo come se stessi» (RB 44, 1-2). Soltanto dopo avere enunciato il duplice comandamento vengono enumerati gli altri innumerevoli precetti, quasi espressione dell’amore e condizione per vivere l’amore.

Nell’ultima parte della Regola la carità acquista sempre maggior rilievo, fino a informare l’intero «ordine della comunità». La Regola, che era iniziata con la figura dell’abate, posta in rilievo in tutta la sua centralità, recupera qui l’elemento di rapporto interpersonale animato dalla carità. Ciò che dà senso a tutto il capitolo riguardante l’ordine della comunità è infatti la parola di Paolo: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (RB 63,17).

Lo stesso amore deve guidare non solo i rapporti tra coloro che hanno ruoli differenti, ma anche quelli tra i diversi gruppi d’età: «I giovani abbiano venerazione per i loro anziani; gli anziani amino con predilezione i giovani» (RB 63,10).

Giungiamo così al capitolo 72 della Regola. È stato affermato che si dovrebbe partire proprio da questo capitolo per rileggere l’intera Regola nella linea della comunione e della carità (E. Manning, L'importance du chapitre 72 de la Règle de S. Benoît, «Regulae Benedicti Studia» 5 (1977) 285-288). In effetti la Regola, al suo termine, raggiunge il punto più intenso della progressiva scoperta della carità come norma delle relazioni intracomunitarie tra i monaci: «Essi, dunque, si prevengano nello stimarsi a vicenda; sopportino con instancabile pazienza le loro infermità fisiche e morali; facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda, nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello degli altri; amino con cuore casto tutti i fratelli; temano Dio con trasporto d’amore; vogliano bene al loro abate dimostrandogli una carità umile e sincera; nulla assolutamente antepongano al Cristo; ed egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna» (RB 72,4-11). Tutti insieme, pariter: i monaci camminano uniti nella comunione tra di loro e nell’amore di Cristo che tutti guida e porta alla vita eterna.

9. Ora et labora

Il primato va all’opus Dei a cui il monaco deve dedicarsi «con amore» (RB 58,7). La vita liturgica, la preghiera, la lectio divina sono descritte con una cura tutta particolare e nei minimi dettagli.

Ma vi è quell’equilibro che caratterizza tutta la legislazione benedettina che porta i fratelli in certi tempi a «dedicarsi al lavoro manuale e in altre ore alla lectio divina» (RB 48,1). È quello che la traduzione successiva ha condensato nella formula: ora et labora, ove il lavoro si inserisce nella collaborazione dell’uomo all’azione di Dio nella creazione.

Molto ricca, al riguardo, risulta l’articolazione dei vari compiti per il buon andamento della vita monastica, sia nella struttura di governo (abate, decani, priori…), sia nella distribuzione degli impegni concreti: cellario, cuochi, lettori, artigiani, portinai…).

Il monastero diventa una cittadella laboriosa e produttiva che tanto influsso avrà nella civilizzazione dei popoli: «Per quanto è possibile, il monastero sia strutturato in modo da avere nel suo ambito tutto quanto è necessario, ossia l’acqua, il mulino, l’orto e le attrezzature per esercitare i vari mestieri» (RB 66, 6).

10. In sintonia con la tradizione della Chiesa

Grande innovatore, Benedetto ha saputo porsi in ascolto di tutta la tradizione precedente. Al termine della sua Regola scrive: «Per chi vuole affrettarsi verso la perfezione della vita monastica, vi sono gli insegnamenti dei santi padri che, messi in pratica, conducono al culmine della santità». Dopo aver rimandato alla Scrittura quale «norma rettissima per la vita dell’uomo», addita esplicitamente i grandi filoni a cui si è ispirato nel proprio insegnamento: «le “Conferenze” dei padri, le “Istituzioni”, le loro “Vite”, la stessa Regola del nostro santo padre Basilio» (RB 73,2-5). Non si tratta solo di fonti per Benedetto, ma anche indicazioni per un cammino “oltre la Regola” che è si rivolge a “principianti”.