Rispondendo a una
richiesta del Capitolo Generale, il Superiore Generale, p. Louis Lougen, ha
annunciato un "Anno delle Vocazioni Oblate" dall'8 dicembre 2017 al
25 gennaio 2019
È bello pregare e
riflettere sulle vocazioni alla vita Oblata. Ci fa bene parlare delle vocazioni
alla vita oblata. Non soltanto perché si stanno diradando e quindi ci è
richiesto un rinnovato impegno perché la nostra Famiglia religiosa continui a
vivere e a svilupparsi sempre più per il bene della Chiesa. Ma anche perché
parlare delle “vocazioni” ci aiuta a riflettere sulla nostra stessa vocazione. E
questo vale per tutti, non soltanto per gli Oblati.
Lasciamo che siano le
Regole a parlarcene.
La Costituzione 52 ci
ricorda che Dio continua a chiamare oggi come sempre (e questo ci dà sicurezza
e pace) e che chiama attraverso di noi (e questo ci dà senso di re pensabilità
e timore di Dio). Dio chiama, continua la Regola, con la mediazione 1) della qualità
di vita, 2) dell’annuncio profetico, 3) della preghiera.
In queste tre
mediazioni è riassunto il pensiero di sant’Eugenio de Mazenod riguardo alle
vocazioni e insieme il suo appello ad una continua revisione di vita per
quanti, come noi, hanno già ricevuto la vocazione oblata e vi hanno risposto
(ma ogni giorno dobbiamo rispondere in maniera nuova).
1.
“Dobbiamo essere consapevoli che, dalla gioia e dalla generosità delle
nostre vite, altri sono invitati a rispondere a questa chiamata”.
Gioia e generosità
sono dunque le caratteristiche dell’Oblato. La prima dice la qualità del nostro
rapporto con Gesù e della vita fraterna, la seconda la qualità della nostra
missione. È questo che si dovrebbe vedere in noi: gioia e generosità. Persone che sanno per chi vivono e per cosa
vivono; persone contente, che si dedicano al proprio ideale di vita con
convezione, senza risparmiarsi.
Sant’Eugenio sperava
che i seminaristi presso i quali lavoravano gli Oblati fossero attratti alla
nostra vita dal loro “buon esempio”, dalla “regolarità” e dalla “sublimità del
ministero” a cui si erano consacrati (Testi
scelti = Ts 411). Bisogna che si convincano, diceva ancora, che da noi
troveranno “uomini di Dio” (Ts 416).
Ai missionari in Canada scriveva: “bisogna sperare che il buon odore delle
vostre virtù attiri qualcuno” (Ts 417).
“Il mezzo più efficace per ottenerli (gli operai per la messe) e quello di
essere sempre ciò che dobbiamo essere” (Ts
414).
Ciò che attira, oggi
come allora, è una vita bella, vera, piena di senso, interamente donata, che
faccia dire: “vale la pena vivere così”. Ciò che attira è una comunità che ha
il sapore della famiglia, dove ci si vuole bene sul serio e si è veramente
fratelli; una missione che si pone autenticamente al servizio del Vangelo per l’edificazione
di una umanità nuova.
Quando era ancora
bambino fui colpito dalla diversità di P. Carlo Irebicella rispetto agli altri
preti di Prato, la mia città natale. Il suo rapporto con la gente così
semplice, immediato e profondo e la sua intraprendenza apostolica mi hanno
segnato. Quando poi, per la prima volta, misi piede nella comunità oblata di
Firenze fui affascinato dall’atmosfera di famiglia che vi regnava, mai
sperimentata nel seminario diocesano dal quale provenivo, che pure amavo
tantissimo. Furono queste testimonianze di vita che mi fecero capire che questa
era la mia strada.
Ci vogliono
“uomini di Dio” (dovremmo essere tali) e “sublimità di ministero” (tale
dovrebbe essere l’ambito e la modalità del nostro lavoro). Ci vogliono tutte e
due le cose.
Oggi nella
nostra società l’immagine, il design, il look, il logo hanno un’importanza
fondamentale. Non è il caso nostro. Qui non basta la facciata, l’apparenza. Può
andare bene per una pubblicità di superficie, che incanta per qualche tempo.
Non certo per far decidere di una vita.
Non
dobbiamo preoccuparci di dare testimonianza. Siamo chiamati semplicemente a
vivere con coerenza. Se pochi condividono la nostra vita e la nostra missione
dobbiamo domandarci - tutti - se la nostra vita è vera, pienamente vissuta,
coerente, e quindi credibile.