Il 23 marzo 1997 era la domenica delle Palme. Da allora è diventata la festa di padre Giovanni Santolini, che in quel giorno moriva in un incidente a Kinshasa, nel Congo. La sua tomba è ancora meta di pellegrinaggio…
Aveva
scritto un bel libro su sant’Eugenio: Evangelizzazione
e missione. Teologia e prassi missionaria in Eugenio de Mazenod. Aveva scritto
anche un importante studio sulla comunità oblata. Ma non è riuscito a scrivere
il libro che sognava da tempo: un romanzo storico. Attento alla cultura
contemporanea, leggeva con passione i romanzi più vari per conoscere sempre
meglio la nostra società. Leggendo un fortunato romanzo di Ken Follet, I pilastri della terra, era stato
colpito dalle ultime pagine del libro quando, a conclusione di una storia
intrigante che tiene a lungo sospeso il lettore, appare improvvisa la figura di
John Ficher, nel momento in cui viene martirizzato nella sua cattedrale.
Giovanni
avrebbe voluto scrivere un romanzo ambientato nella Marsiglia dell’Ottocento
dove, ad un certo punto, sarebbe dovuto comparire il vescovo della città,
Eugenio de Mazenod, e fare, naturalmente, la sua bella figura! «Se scrivi un
libro su sant’Eugenio ‑ mi diceva Giovanni ‑ te lo leggono i soliti quattro
Oblati e amici. Se invece scrivi un romanzo alla Ken Follet, che tira milioni
di copie in tutto il mondo, pensa a quanti conosceranno il fondatore degli Oblati!».
Giovanni
amava intensamente Eugenio de Mazenod e la famiglia oblata: la sua famiglia.
Tanti ricordano l’incontro degli italiani nella chiesa di san Lorenzo in
Lucina, a Roma, in occasione della canonizzazione del Fondatore. Gli Oblati
italiani provenienti dalle missioni erano invitati a dare la loro
testimonianza. Quando fu la volta di Giovanni, si avviò dal fondo della chiesa,
salutando tutti con le sue grandi mani e, giunto in cima, disse soltanto:
«Troppo forti gli Oblati!». Uno slogan collaudato, che da Kinshasa mandò in
giro per il mondo, via Internet, anche il 17 febbraio 1997, pochi giorni prima
della morte, in occasione della festa degli Oblati. Vale la pena leggere il
messaggio: «Un saluto per darvi gli auguri di buona festa per il 17 febbraio. È
bello poterci dire da un capo all’altro della terra quello che il fondatore ci
domandava di essere: un cuor solo e un’anima sola... Siamo in unità con tutti,
anche con quelli che non sono collegati con Internet». E dopo la firma,
naturalmente: «Siamo troppo forti noi OMI !!!!» (sì, con quattro punti
esclamativi).
Credeva
fermamente all’unità della famiglia oblata, di cui si sentiva parte viva. Era consapevole
che la sua missione in Zaire era quella di essere strumento di comunione
all’interno dello Scolasticato, tra gli Oblati della Provincia, tra questi e
gli Oblati di tutto il mondo. Era questa, d’altra parte, la sua idea del
missionario: «Il missionario è strumento di comunione tra chiese. Ci vuole
qualcuno disposto a dare la vita per continuare la comunione» (7 giugno 1995).
Se era rimasto in Zaire, nonostante le difficoltà, era proprio per essere
questo strumento di comunione.
«Per quanto riguarda la comunità ‑ mi scriveva il 5 aprile 1996, Venerdì santo ‑ “in questo giorno così significativo per noi Oblati”, come ricordava - direi che le grazie non mancano e che bisogna continuare a credere alla Provvidenza. Dio non toglie i problemi, ma mi domanda di amarLo nei problemi, e a poco a poco mi accorgo che è proprio questo che mi fa andare avanti, e che mi dà serenità e pace interiore. Sento che il mio ruolo qui è quello di dare pace e serenità, di prendere su di me le tensioni e, anche a costo di sembrare sciocco, di far sì che non si vedano i problemi ma che si veda il positivo e che si vada avanti. Bisogna togliere a tutti i costi lo spirito di disfattismo, del “non va niente bene”, del “fare tutto male e non siete capaci a far niente...”».
Costruiva
la comunione ed era sostenuto dalla comunione. «In questi tempi ‑ scriveva il
21 maggio 1996, facendomi notare che era il giorno della prima festa di Sant’Eugenio
‑ abbiamo diverse occasioni per essere in unità diretta e questo mi fa pensare
che ci sia un piano di Dio per continuare a vivere in un’unità profonda nella
santità collettiva.
Le
difficoltà non mancano, ma sentivo come tutto concorre al bene. In questi
giorni, forse a causa della stanchezza, o perché le tensioni si accumulano, mi
accorgo di reagire troppo umanamente, e mi pesa, ma poi sento che sono come
sostenuto dalla santità collettiva e che tutto quello che facciamo, lo facciano
assieme. Si tratta di una esperienza meravigliosa, come se non esistessero
distanze. Sento che in questo il sogno del Fondatore, di fare di tutti gli
oblati una sola famiglia, è realizzato. Volevo dirtelo proprio oggi, giorno
della sua festa».
Il
segreto di Giovanni stava in questa capacità di consumare in sé il negativo per
dare agli altri solo il positivo: un vuoto tutto pieno d’amore. Il segreto di
Giovanni stava in questa capacità di vivere costantemente in unità con tutto il
corpo apostolico. La sua amicizia, così cordiale e concreta, era animata sempre
da forti motivazioni cristiane. «Ti ringrazio di tutto perché non puoi
immaginare quanto sia importante avere un amico come te – mi scriveva il 20
ottobre 1995, con parole che tutti quanti lo hanno conosciuto possono sentire
rivolte a se stessi –. Il fatto di sapere che ci capiamo subito e che andiamo
avanti insieme, con tutti gli altri, questo mi permette di vivere e di far
vivere quelli che mi stanno attorno».
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