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Quando
il cielo era poche spanne sopra la terra era facile per Dio affacciarsi e guardare
quanto accadeva quaggiù in basso, interessandosi delle creature. Vedeva se
osservavano le sue leggi oppure no, se rispondevano al suo amore; si curava delle
persone, ad una ad una; guidava il suo popolo, sapeva se camminava rettamente o
se si perdeva dietro ad altri dei che tali non erano…
Agli
uomini bastava alzare la testa all’insù per parlare col loro Dio; era vicino e
poteva ascoltare con facilità la loro voce.
Ma è
bastato elevarsi con gli aerei di linea sui quindicimila metri per vedere
scomparire le persone. Quando poi le navicelle spaziali si sono posizionate in
orbita attorno alla terra questa è apparsa come una splendida piccola palla
azzurra che si può quasi tenere in una mano e sono scomparse anche le città. Poco
più in là si dilegua anche il sistema solare e se ci allontaniamo qualche
milione d’anni la nostra galassia diventa un puntino e poi nemmeno quello, in
un universo di infiniti universi. Quel minuscolo uomo non è più neppure un
pulviscolo, come non lo è più la terra, né il sistema solare, né la galassia
della Via Lattea.
L’uomo
s’è perso, non è più niente.
Ho
pensato a tutto questo oggi, ascoltando Gesù che nel Vangelo dice d’essere
venuto per dare la propria vita in riscatto di molti. Ma da dove è venuto? E tra
tutti questi spazi infiniti senza più spazi, cosa gli interessa quel pulviscolo
di Terra sparita tra milioni di galassie? Che gli interesserà poi quel niente
di niente di me perduto tra i milioni d’anni luce?
Eppure
ci credo. È venuto per me: “per noi uomini e per la nostra salvezza”, come
abbiamo recitato nel credo. Una realtà grandissima, più grande dell’universo
senza fine, che merita una gratitudine altrettanto infinita.
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