“Se qualcuno vuol
venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua
croce e mi segua” (Mc 8, 34)
Gesù si
rimette in cammino, questa volta verso Gerusalemme, dove si compirà il suo
destino di morte e risurrezione. Ora che i suoi discepoli sanno che andrà a
morire, vorranno ancora seguirlo? Le condizioni che Gesù richiede sono chiare
ed esigenti. Convoca la folla e i suoi discepoli attorno a sé e dice loro:
“Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua
croce e mi segua”
Erano rimasti
affascinati da lui, il Maestro, quando era passato sulle rive del lago, mentre
gettavano le reti per la pesca, o al banco delle imposte. Senza esitazione
avevano abbandonato barche, reti, banco, padre, casa, famiglia per corrergli
dietro. Lo avevano visto compiere miracoli e ne avevano ascoltato le parole di
sapienza. Fino a quel momento lo avevano seguito animati da gioia ed entusiasmo.
Seguire Gesù
era tuttavia qualcosa di ancor più impegnativo. Adesso appariva chiaro che
significava condividerne appieno la vita e il destino: l’insuccesso e
l’ostilità, perfino la morte, e quale morte! La più dolorosa, la più infamante,
quella riservata agli assassini e ai più spietati delinquenti. Una morte che le
Sacre Scritture definivano “maledetta” (cf Deut
21, 23). Il solo nome di “croce” metteva terrore, era quasi impronunciabile. È
la prima volta che questa parola appare nel Vangelo. Chissà che impressione ha
lasciato in quanti lo ascoltavano.
Adesso che
Gesù ha affermato chiaramente la propria identità, può mostrare con altrettanta
chiarezza quella del suo discepolo. Se il Maestro è colui che ama il suo popolo
fino a morire per esso, prendendo su di sé la croce, anche il discepolo, per
essere tale, dovrà mettere da parte il proprio modo di pensare per condividere
in tutto la via del Maestro, a cominciare dalla croce:
“Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua
croce e mi segua”
Essere cristiani significa essere altri Cristo: avere
«gli stessi sentimenti di Cristo Gesù», il quale «umiliò se stesso facendosi
obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 5.8); essere crocifissi con Cristo, al punto da poter
dire con Paolo: «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20); non sapere altro «se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2, 2). È Gesù che continua a
vivere, a morire, a risorgere in noi. È il desiderio e l’ambizione più grande
del cristiano, quella che ha fatto i grandi santi: essere come il Maestro. Ma
come seguire Gesù per diventare tali?
Il primo
passo è “rinnegare se stessi”, prendere le distanze dal proprio modo di
pensare. Era il passo che Gesù aveva chiesto a Pietro quando lo rimproverava di
pensare secondo gli uomini e non secondo Dio. Anche noi, come Pietro, a volte
vogliamo affermare noi stessi in maniera egoistica, o almeno secondo i nostri
criteri. Cerchiamo il successo facile e immediato, spianato da ogni difficoltà,
guardiamo con invidia chi fa carriera, sogniamo di avere una famiglia unita e
di costruire attorno a noi una società fraterna e una comunità cristiana senza
doverle pagare a caro prezzo.
Rinnegare se
stessi significa entrare nel modo di pensare di Dio, quello che Gesù ci ha
mostrato nel proprio modo di agire: la logica del chicco di grano che deve
morire per portare frutto, del trovare più gioia nel dare che nel ricevere,
dell’offrire la vita per amore, in una parola, del prendere su di sé la propria
croce:
“Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua
croce e mi segua”
La croce –
quella di “ogni giorno”, come dice il Vangelo di Luca (9, 23) – può avere mille
volti: una malattia, la perdita del lavoro, l’incapacità di gestire i problemi
familiari o quelli professionali, il senso di fallimento davanti all’insuccesso
nel creare rapporti autentici, il senso di impotenza davanti ai grandi
conflitti mondiali, l’indignazione per i ricorrenti scandali nella nostra
società… Non occorre cercarla, la croce, ci viene incontro da sé, forse proprio
quando meno l’aspettiamo e nei modi che mai avremmo immaginato.
L’invito di
Gesù è di “prenderla”, senza subirla con rassegnazione come un male
inevitabile, senza lasciare che ci cada addosso e ci schiacci, senza neppure
sopportarla con fare stoico e distaccato. Accoglierla invece come condivisione
della sua croce, come possibilità di essere discepoli anche in quella
situazione e di vivere in comunione con lui anche in quel dolore, perché lui
per primo ha condiviso la nostra croce. Quando infatti Gesù si è caricato della
sua croce, con essa ha preso sulle spalle ogni nostra croce. In ogni dolore,
qualunque volto esso abbia, possiamo dunque trovare Gesù che già lo ha fatto
suo.
Igino Giordani, vede in proposito l’inversione
del ruolo di Simone di Cirene che porta la croce di Gesù: la croce «pesa di
meno se Gesù ci fa da Cireneo». E pesa ancora di meno, continua, se la portiamo
insieme: «Una croce portata da una creatura alla fine schiaccia; portata
insieme da più creature con in mezzo Gesù, ovvero prendendo come Cireneo Gesù,
si fa leggera: giogo soave. La scalata, fatta in cordata da molti, concordi,
diviene una festa, mentre procura un’ascesa» ( La divina avventura, Città Nuova, Roma 1966, p. 149ss).
Prendere la
croce dunque per portarla con lui, sapendo che non siamo soli a portarla perché
lui la porta con noi, è relazione, è appartenenza a Gesù, fino alla piena
comunione con lui, fino a diventare altri lui. È così che si segue Gesù e si
diventa veri discepoli. La croce sarà allora davvero per noi, come per Cristo,
«potenza di Dio» (1 Cor 1, 18), via
di risurrezione. In ogni debolezza troveremo la forza, in ogni buio la luce, in
ogni morte la vita, perché troveremo Gesù.
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