Nello stesso periodo in cui
scrive la lettera ai Galati, anno 54-55, Paolo torna a mostrare il mistero
della venuta del Signore sulla terra legandolo ancora strettamente con la sua morte
e risurrezione. Nella Lettera di Filippesi riprende e adatta un inno della
comunità cristiana, quindi ancora più antico, secondo il quale Gesù Cristo «non
ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo la
condizione di servo, divenendo simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto
come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte
di croce» (2, 6-8).
La
discesa consiste nell’abbandonare la sua gloria e divenire uomo tra gli uomini,
in un abbassamento progressivo che lo porta a morire, anzi – e questa sembra
proprio una aggiunta di Paolo al precedente inno – a morire sulla croce, il
supplizio riservato agli schiavi: non si era abbassato fino a diventare “servo”?
La sua “condizione di Dio” si eclissa per assumere fino in fondo la realtà
umana e essere accanto a ogni uomo nella sua condizione di miseria, di limite, di
peccato: ekénosen, svuotò se stesso. Il
“Natale” è l’atto dello svuotamento che Gesù fa di se stesso, la sua kénosis.
Non un Dio che scende sulla terra con potenza, con la luce abbagliante della
sua maestà, ma nel nascondimento, nel silenzio, nell’umiltà nel suo significato
originario di humus, del farsi terra. Un Dio che entra nella realtà
umana e la percorre tutta, fino in fondo, in una immedesimazione tale che gli
fa scordare la sua divinità.
La divinità rimane, ma
nascosta, completamente impastata di terra, di umano, per niente appariscente.
Ma c’è, come la vita è presente nel chicco di grano che muore sotterra, secondo
la più breve e la più bella parabola di Gesù, riferita proprio a lui stesso in
questo mistero di kénosis, di abbassamento, fino a essere sotterrato.
La vita divina, la divinità
rimane in questo uomo che prende la forma del servo e che muore. È sempre il
Figlio di Dio che prende “carne”, altrimenti morirebbe e basta, senza avere in
sé la capacità di dare la vita nuova. Se scende nelle profondità oscure della
nostra storia è per farla risorgere con lui, per trasformarla con la presenza salvifica della sua divinità.
Al
momento discendete succede dunque quello ascendente, quando brilla di nuovo la luce
della trascendenza eclissata nella morte in croce. Il servo torna ad essere Kyrios,
“Signore”, entra nuovamente nella sua gloria: «Dio lo esaltò e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome», così che tutti i popoli e tutte le lingue proclamino:
«Gesù Cristo è Signore» (2, 9.14).
Discesa
e ascesa, Natale e Pasqua, sono inseparabili.
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