L’aggettivo “corporale” trova la sua prima ricorrenza nella
lingua italiana probabilmente nel Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi:
“sora nostra Morte corporale, / da la
quale nullu homo vivente po’ skappare”.
Da allora l’aggettivo è legato alla fragilità umana, alla
morte, acquistando un senso negativo. La mente va subito alla punizione o alla pena
corporale, al disfacimento della carne, fa vedere piaghe ripugnanti o peccati
carnali di un sesso degenerato. Un aggettivo lontano dal sinonimo “corporeo”,
così nobile, fatto apporta per esaltare la corporeità in tutta la sua bellezza.
Il sostantivo “corporale” indica un lino bianco che viene disteso
sull’altare per poggiarvi la patena e il calice eucaristici. Generalmente è inamidato,
senza ricami, in modo da poter facilmente recuperare un eventuale frammento di
ostia caduto su di esso. Il corporale serve proprio per raccogliere e proteggere
le specie eucaristiche. Nell’antichità veniva impiegato per avvolgervi il pane
consacrato e portarlo ai malati.
Pensando alle opere di misericordia mi è venuto spontaneo il
collegamento tra aggettivo e sostantivo. Le opere di misericordia “corporali”
intercettano i bisogni primari di questa nostra povera fragilità umana: la
fame, la sete, la nudità, l’esposizione alle intemperie, la malattia, il
carcere, fino all’assoluto disfacimento del corpo fatto cadavere.
È qui che emerge il “corporale” sostantivo. L’opera
di misericordia nasce dal riconoscere nella miseria umana la “carne” di Cristo.
Non rimane allora che avvolgere e proteggere questa carne con il “corporale”,
come si fa nella messa. L’opera di misericordia si rivolge al Cristo: “Tutto
quello che avrete fatto… l’avrete fatto a me”.
Ne parlerò giovedì a Sant'Eustachio, al nostro solito appuntamento.
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