domenica 26 gennaio 2025

Tito Banchong, “Schiavo di Gesù”

È arrivata la notizia: «Mons. Tito Banchong Thopanhong, per noi tutti p. Tito, è deceduto a Vientiane il 25 gennaio, all'età di 78 anni, consumato da una lunga malattia, dovuta anche agli stenti sofferti da ormai 50 anni».

Il 19 novembre scorso sul blog segnalavo il libro appena uscito su di lui:

https://fabiociardi.blogspot.com/2024/11/padre-tito-anche-in-prigione-posso-amare.html

Il 5 ottobre 2015, sempre sul blog, riportavo una sua intervista, con delle belle foto della sua partenza dall’Italia nel 1975 (la foto che qui pubblico è della visita che potei fargli al Laos nel 1991):

https://fabiociardi.blogspot.com/2015/10/padre-tito-morire-per-la-propria-gente.html

Quando scomparve, nel 1976, per i sette lunghi anni di prigionia di lui non si seppe più niente. All’indomani della sua scomparsi raccolsi subito alcuni stralci delle lettere dalla Thailandia e dal Laos che ci aveva inviato poco dopo la partenza da Roma. Avevamo l'impressione che fosse già stato ucciso. Non ho mai avuto modo di far conoscere quel breve scritto. Ecco l’occasione! 

«Sono già pronto per Gesù, per essere il sue martire, se sarò degno e se Lui mi vuole. Ormai credo che il tempo sia già tanto vicino». Così termina una delle lettere di Tito.

«Come Gesù, sono stati attenti a non arrestarlo durante la festa per paura del popolo, ma in un’imboscata». È l’inizio del racconto giunto dal Laos sulla scomparsa di Tito. «Il giorno di Pasqua e durante tutti i giorni delle feste pasquali, la chiesa è stata sorvegliata attentamente da militari armati. Gli spostamenti dei padri erano stati seguiti... e durante le funzioni hanno accerchiato le case dei padri... Gli abitanti del villaggio sono dovuti intervenire... Dopo le feste, per prendere un po’ di riposo, i padri sono andati a pescare... Al ritorno li attendeva un’imboscata... Tito è stato arrestato». È il 14 aprile. «I villaggi reagiscono compatti... Sono tutti a Paksane per ottenere spiegazioni e la liberazione di Tito... Per calmarli sono state tirate fuori tutte le menzogne: è partito per Vientiane, sono-stati gli uomini della resistenza a portarlo via (proprio cerne nel Vangelo), ecc. Per finire hanno riunito tutti in assemblea di rieducazione ed ecco cosa hanno detto: Tito veniva dall’Australia (devono essersi confusi con l’Italia) dove aveva studiato per organizzare la resistenza, aveva a sua disposizione aerei ed elicotteri per la resistenza ed era il capo della resistenza nella regione di Paksane. La gente evidentemente non è stupida. Hanno chiesto di vedere e di verificare con lui. “Se è vero occorre un processo; c’è giustizia o no adesso? Vivo o morto vogliamo vederlo”. Non c’è stata risposta se non che l’ordine veniva dal comitato centrale».

Giunge in seguito un’altra lettera: «Nessuna notizia di Banchong. La gente della regione ha ricevuto la proibizione di parlarne o di farne ricerche sotto pena di prigione e di rappresaglie...».

+ + +

Tito è il nome che Banchong Topagnong ha ricevuto a 8-9 anni, quando è stato battezzato, assieme con la sua famiglia, nel villaggio Hmong (Meo) di Kiukiatan, nel Nord Laos. In quello stesso villaggio più tardi ha vissuto P. Mario Borzaga per quasi due anni. Allora Tito era già un ragazzo di 12-15 anni e ha sempre conservato un prezioso ricordo di quel padre che ha profondamente inciso nella sua vita.

Entrato in seminario vi rimase per poco tempo, abituato alla libertà della foresta non si adattava facilmente alla vita di seminario. Pu proprio il ricordo di P. Borzaga a farlo tornare in seminario, assieme alla coscienza, lentamente maturata, che diventando sacerdote avrebbe potuto dare un apporto essenziale alla sua gente perché in questo modo, come diceva lui stesso, “il mio aiuto avrebbe raggiunto le radici della vita”. Così nel 1969 entra nel seminario maggiore a Phong-Pen, in Cambogia. Ma presto il seminario venne chiuso e Tito torna a Vientiane da dove, nel 1970, Mons. Staccioli lo manda a studiare teologia in Italia. È ormai tardi per iscriverlo al collegio di Propaganda Fide. Va allora a San Giorgio, con gli scolastici, e poi nel 1973 a Vermicino.

Intanto la situazione del Laos si fa ogni giorno più critica, e quando gli Oblati vengono espulsi, Tito ha già preso la sua decisione: “Ho scelto la Chiesa del Laos e sento che Dio mi vuole là e non altrove”. “Anche se dovrò fare il prete per un solo giorno, io ritorno al Laos”. Il 13 settembre 1975 parte da Fiumicino: “Forse ci rivedremo solo in Paradiso”. Le ragioni profonde della sua scelta le ripeterà di nuovo appena giunto in Thailandia, dopo aver incontrato i profughi della sua terra e la sua stessa famiglia nel campo dei rifugiati, come ci scrive: «È sempre una nuova scelta per me. Là dove c’è la croce da abbracciare ritorno volentieri. Solo che sarà difficile... Vedo un gregge senza pastore. Lì, proprio lì, rinnovo il mio sì alla Croce. Nessuno (dei miei familiari e amici) voleva che tornassi nel Laos, ma so che questa croce nuda mi attende li...». «Ho deciso di ritornare nel Laos, non c’è nessuno per 1’apostolato... Ritorno affinché tutti noi siamo più forti, ritorno per aiutare i credenti. Ritornando ho scelto Dio solo; è Lui che mi fa ritornare ed è per questo che io ritorno».

È duro lasciare i propri familiari e tutti gli amici del villaggio nel campo dei profughi. Gli sembra quasi di tradirli, perché hanno posto in lui tutta la loro speranza: «Ho potuto andare a trovare i miei a Pua, una sessantina di km da Han. Li ho riscelto il mio SI’, Era doloroso. Tutti venivano addosso a me, i miei piangevano. Non volevano che rientrassi nel Laos. Non potevo dire nessuna parola. Sembrava che tutto crollava attorno. Sentivo fortissima la parola “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. La mia forza era ridotta a nulla. Dopo una notte ‘bianca’ mi sono ripreso. Così ripetevo il mio ‘si’ a Gesù Abbandonato e ho ripreso la forza di lasciare i miei nel pianto». Tito infatti conosce un solo modo per aiutare la propria gente: «La nostra gente sarà salvata se facciamo come Cristo stesso, cioè consacrandoci alla volontà di Dio».

Tre giorni dopo, dal Laos (Vientiane), scrive ancora: «Sono contento di poter portare la mia croce dietro a Lui... Il mio ritorno è una forza per il clero locale, perché credeva che non tornassi più; invece sono tornato, pur sapendo che devo soffrire... Dicono che sono pazzo, perché la gente cerca di uscire, invece io cerco di entrare. Certo che chi segue Lui, agli occhi del mondo è sempre un pazzo».

E pensando all’ordinazione ormai prossima: «Sono contento di poter offrirmi al Signore, pur sapendo che il peggio mi aspetta. Sono contento di essere utile all’umanità. La mia forza è la fede e l’amore del Signore. Non posso più contare sulla forza e sull’amicizia umana. Così ogni momento della mia vita devo rinnovare il mio “sì” al Signore. Riscelgo continuamente Lui, mi ha chiesto tutto, così ho lasciato tutto per essere degno di Lui. Fare la sua volontà non è tanto facile, anzi è una pazzia, ma se sappiamo accettarla Egli ci riempie di gioia e di pace».

Pochi giorni dopo il suo arrivo a Vientiane, viene ordinato sacerdote da Mons. Nan Tha, il 28 settembre. Il giorno dopo scrive: «Ormai non ho più paura perché sono del Signore... Sono pronto a tutto. Sono contentissimo. Nessuno può separarmi da Lui... Ogni giorno scopro sempre più che Lui è con me. Ho Lui. Com’è belle, vero? Mi chiede tutto, gli do tutto».

Il 5 ottobre parte per Luang Prabang. Poco prima della partenza scrive: «Sono contentissimo perché sono già sposato. Ormai nessuno può togliermi la mia “Bellezza”. Devo affrontare tanti dolori, ma vivo in un’atmosfera di gio­ia perché so che- la mia Bellezza mi vuole cosi. Farò di tutto per poter stare accanto a Lei. Conto sulla vostra unità, mi sento tanto unito a voi. Posso continuare la mia vocazione solo se la mia unità e la vostra sono veramente una».

A Luang Prabang Tito non può svolgere nessun ministero, non può visitare le famiglie cristiane: «È mille volte più difficile di come avevo immaginato». Finalmente, dopo aver chiesto permessi su permessi ottiene di poter celebrare una Messa con i cristiani, «ma è stata una messa dolorosissima per tutti quanti. Durante la santa Messa c’era una decina di soldati con le armi che stavano vicino all’altare. Non potevamo dire nessuna parola come volevamo. Dopo le letture volevo fare l’omelia, ma non potevo: dentro di me volevo esprimere tante cose per incoraggiare i cristiani, ma non potevo dirle. Mi sono seduto un momento in silenzio e mi sono messo a piangere come un bambino; gli altri mi hanno visto e hanno cominciato a piangere pure loro. Quando gli altri mi hanno visto piangere, ho cercato di farmi coraggio, mi sono alzato ed ho ripreso la celebrazione. Durante la Messa, gli occhi negli occhi, ci dicevamo: Coraggio, Gesù porterà i nostri dolori».

La situazione è incerta. «Non so nemmeno quanti giorni possiamo rimanere a Luang Prabang. Dicono che devono cacciarci al più presto possibile. Cerchiamo di riempire la Sua Volonté ogni giorno. Umanamente non si capisce più niente. Dobbiamo essere Lui vivente». Riesce a visitare qualche villaggio per trovare i cristiani e i catecumeni: «La mia presenza è un grande conforto per loro».             .

Il 5 novembre arriva l’ordine di lasciare la provincia di Luang Prabang. Poco prima della partenza scrive: «Giusto un mese che ero a Luang Prabang. Cercavo di mettermi in contatto con i cristiani. Ero tanto contento. Può darsi che non era volontà di Dio. Egli mi ha tolto questa poca gioia che gustavo... Cerchiamo di fare la volontà di Dio. Adesso ho tanta paura per i cristiani... Non posso stare vicino a loro ma il Signore li guiderà».

L’accusa con la quale viene cacciato dalla provincia di Luang Prabang, la stessa che si ripeterà poco dopo a Vientiane, riempie Tito di gioia: «“Gli schiavi di Gesù sono inutili per il paese; gli imitatori di Gesù non sono degni di vivere nella società libera; chi è schiavo di Gesù deve convertirai al più presto alla libertà...”. Quanto sono contento! quando sento risuonare in me “schiavo di Gesù”. Credo che sia l’unica bella parola che il cristiano aspetta, per essere un po’ simile al suo Signore sulla croce».

A Vientiane la situazione è ugualmente difficile e Tito mostra di esse­re perfettamente cosciente del pericolo che incombe sulla sua stessa persona: «C’è tanta difficoltà, ma il Signore mi dà sempre la pace. La situazione diventa peggiore, certamente ci rivedremo lassù». Le difficoltà e il perico­lo non lo bloccano: «Il coraggio non mi manca mai, sono sempre sereno e pronto a tutto per fare la volontà di Gesù, perché Lui è con me».

Sia per tenerlo più al sicuro, sia perché possa curare i numerosi cristiani del luogo, il Vescovo lo manda a Paksane. «L’apostolato secondo il vecchio metodo è impossibile... Senza volere divento parroco di cinque villaggi... Adesso cerco di farmi conoscere dai cristiani. Pian piano devo prendere in mano la formazione dei seminaristi. La mia croce diventa sempre più pesan­te, Sono contento perché il Signore mi dà sempre la sua forza e la sua gioia. Tante volte c’è da piangere... Cerco di essere la “Luce”, come ha detto il Vangelo; siccome non posso fare quello che volevo, cerco di esserlo. Ogni giorno bisogna rinnovare il proprio Sì e ricominciare da capo. Non trovo così duro questo Sì e questo ricominciare da capo. Il loro valore è profondissimo. È una cosa che non riesco a spiegare con le parole».

A Paksane ha maggiore libertà, può visitare i villaggi, può come ripete spesso, “fare il vagabondo”: «Ora riprendo il mio vagabondare, La quaresima richiede la mia presenza di qua e di là. So amare, devo amare fino all’ultimo soffio della mia vita, Cerco di farmi debole con i deboli, anche se mi Costa tantissimo. A Lui è costata la vita, perché non posso farlo anch’io, vero?»,

La responsabilità della cura dei cristiani si fa sempre più pesante. Deve “saltare di qua e di là” con la sua moto. «La vostra preghiera mi è utilissima - scrive agli scolastici - perché qui tante volte non riesco a pregare, sia per la stanchezza, sia perché occupato dalla gente fino a tarda sera. Ogni responsabilità mi cade addosso. Non so più dove mettere la mano. Il mio vivere è il suo dolore e il suo grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”».

Alla durezza del lavoro si aggiunge il male agli occhi. Tito era stato operato agli occhi due volte, in Italia. «Io adesso sto bene, solo che mi fanno male un po’ gli occhi. Forse lo chiede il Signore, non lo so. Voglio andarmi a curare però non so se è possibile. Ogni volta che faccio un giretto con la mia moto mi fanno molto male e mi lacrimano. Ho pensato di trovare un momento libero per andare a trovare le medicine, ma non c’è nessuno che mi sostituisce. Non sembra un grande lavoro: faccio una piccola cosa, poi un’altra e già è finita la giornata... (Altri hanno bisogno di aiuto), ma sono solo e non posso far nulla per loro. Quando penso a questo mi sento male perché sembra che li lascio abbandonati. Però cerco ad ogni modo di fare solo la volontà di Dio. Se non ci fosse Dio che mi conforta non ce la farei a vivere una vita così difficile”.

È il momento del buio. «La Pasqua del Signore ha durato poco, secondo la liturgia, ma la mia è sempre presente. Ci sono tante cose che non capisco niente, ma metto la mia fiducia nel Signore. Almeno Lui lo sa; il destino che il Signore mi riserva è oscuro, me lo rivela ogni giorno della mia vita. Per loro sono tornato nel Laos, adesso per loro rimango fine alla fine... Mi sento sempre più abbandonato, come il Suo grido, ma nello stesso tempo Lo sento con me, Non so se potrò darvi mie notizie. L’importante è che ci troviamo in Lui». Tito sembra presagire la sua fine, ma rimane sereno: «Non per vantarmi, ma dicono che sono il più calmo... So che dopo il dolore nascerà l’Amore, la gioia». E la sua calma ridà fiducia ai cristiani e agli stessi sacerdoti. «Banchong, scrive il Vescovo, è sempre in pieno dono di sé, generosissimo».

Porse per questo il Vescovo gli affida la preparazione al sacerdozio di tre giovani. «Sento di essere il concime per questi tre piccoli semi, ma non so fino a quando potrò stare ancora con loro». Questa scuola è però contro la legge e diventa l’occasione per minacce da parte delle autorità. Tito è spiato, ma ormai è nella gioia: «Sono nelle mani di Dio. Il Signore mi rivela il suo Amore. Sto sempre nella Pace, così ciò che cercavo e cerco l’ho trovato».

È l’ultima lettera di Tito, “schiavo di Gesù”, ormai amico di Gesù: “Non vi chiamo più servi, ma amici”.



3 commenti:

  1. Questo racconto mi ha fatto riflettere di come dovrebbe essere e vivere la fede ,come si fa ad avere una fede così……..

    RispondiElimina
  2. Me lo rivedo Tito come l'ho conosciuto nel 1968 a Louang Prabang tutto d'un pezzo, che ha preso poi forma con gli oblati in Italia, dove Gesù è entrato nella sua vita, ben spesa per Dio attraverso i suoi del Laos. L

    RispondiElimina