“Gesù, voglio essere Tuo, no,
voglio essere Te, neanche,
Tu vuoi essere
me!”
Così Giovanni Santolini la
mattina presto del 30 novembre 1981. Aveva 28 anni e 1 giorno…
Presto sarà
stampata la sua biografia e sarà una rivelazione.
“Gesù, voglio essere Tuo, no,
voglio essere Te, neanche,
Tu vuoi essere
me!”
Così Giovanni Santolini la
mattina presto del 30 novembre 1981. Aveva 28 anni e 1 giorno…
Presto sarà
stampata la sua biografia e sarà una rivelazione.
Tre giorni di convegno COMI, nello scenario incantato
della casa e del parco archeologico dei Passionisti al Celio. Per una
rivisitazione delle Regole…
Il metodo mi sembra chiarissimo. Ogni tematica va
affrontata seguendo tre tappe:
- l’attenzione alle origini: quale le prime intuizioni
carismatiche? Esse possiedono un inconfondibile timbro ispiratore, dove si
avverte l’indelebile tocco dello Spirito;
- l’excursus dell’esperienza storica che ha concretizzato
l’ispirazione iniziale e l’ha lievitata grazie all’apporto di tante persone che
l‘hanno vissuta, interpretata, attualizzata in contesti diversi, con soluzioni
sempre nuove;
- l’apertura alla sensibilità attuale, ecclesiale,
sociale, che domanda di rileggere l’ispirazione nei nuovi contesti così che sia
sempre rispondente ai nuovi bisogni.
Un cammino entusiasmante: auguri!
Verrà il
momento in cui Gesù manderà i tuoi discepoli nel mondo intero. Il secondo libro
di Luca sarà tutto dedicato all’annuncio del Vangelo, al dilagare della Parola.
Ma ora è tempo di diventare discepoli. Non si può insegnare se prima non si è
imparato, e anche dopo aver imparato saremo ancora e sempre discepoli e Gesù l’unico
maestro.
Tanti si
propongono come maestri, con richiami allettanti, con parole suadenti e
seducenti. Come sono brillanti i falsi profeti che promettono successi facili:
tv, pubblicità, politici senza scrupoli... guide cieche!
Sii tu il
nostro Maestro,
tu che hai parole di verità e di vita,
tu la via che ci guida sul retto cammino.
Tra le lusinghe che risuonano e seducono
che io oda la tua voce, distinta
e solo quella ascolti e segua.
Il discepolo,
nella fedeltà al maestro, deve poter ripetere le sue parole, insegnare a sua
volta. Ma la parola che Gesù mette sulle mie labbra e che ripeto, prima che
agli altri è rivolta a me. Io per primo la sento fuoco che purifica, spada che
penetra e fa la verità. So di avere occhi accecati da trave.
Purifica il
mio cuore e le mie labbra.
Toglimi la trave che mi offusca la vista.
Come annunciare ciò che non vivo?
Sono io che ho bisogno di conversione
e della tua misericordia.
Eppure mi hai inviato,
povero tra i poveri, peccatore con i peccatori,
e non posso tacere.
Vado dal fratello senza presunzione
e le parole che tu metti sulla mia bocca
cancellino i miei peccati
e siano appello efficace a conversione.
Il discepolo
cosa deve donare? Verità, sapienza, annuncio di speranza, ciò che a sua volta
ha ricevuto. Gli si domanda creatività nelle modalità espressive e fedeltà ai
contenuti: canale di Gesù e della sua parola. Ma mai ripetitore meccanico, altoparlante
asettico.
Il Maestro chiede
di essere suoi testimoni: dobbiamo aver visto, condiviso, sperimentato,
vissuto. Chiedi un cuore buono, grande, capace di contenere un tesoro, cose
buone.
Crea in me un
cuore nuovo,
secondo il tuo Vangelo.
Semina il seme della tua Parola,
fallo germogliare e che porti frutti buoni
che tutti possano mangiare
fino a saziarsene.
Sia la vita a parlare,
mostrando la verità e la bontà
del tuo insegnamento,
che io per primo
ti chiedo la grazia di vivere.
La definizione che dà il Dizionario Treccano di raccoglimento: «Concentrandosi intensamente nella riflessione o meditazione di un determinato soggetto e astraendosi da ogni altro pensiero o attività (…) esercizio ascetico di meditazione interiore, volto al congiungimento dell’animo, liberato da ogni distrazione, con la divinità». (Tra gli altri esempi: “ascoltarono col massimo r. le parole del sacerdote” – tutto dire!)
A me, pensando a questo “congiungimento dell’animo con la divinità” verrebbe da supporre un cambio di soggetto. Non sarà Dio che fa il raccoglimento? Che si libera da tutto per accogliere noi?
Auguri padre Tommaso Campagnuolo: 95 anni d’età e 70 anni di
sacerdozio!
Anche il papa mercoledì, all’udienza generale gli ha dato un saluto
particolare.
La natura tutta non è che un poema che innalza ed
affascina perché canta in versi divini la Madonna e Colui del quale ella è il
Paradiso ed il Capolavoro.
Se
contemplo il vasto cielo, penso all’infinità di Dio. Se vedo un lampo, sento rumoreggiare
i tuoni, penso alla giustizia di Dio, ma quando vedo Maria penso alla bontà di
Dio – Dio maternizzato.
È
p. Anselmo Trèves (1875-1934) che scrive. Da buon valdostano è innamorato della
natura, da buon Oblato di Maria Immacolata è innamorato di Maria…
Frans Claerhout, Oblato |
Ogni Oblato, in un certo senso, è un po’ un “artista”! Ogni missionario è
chiamato a comunicare una Verità che, per sua natura, è tutt’uno con la
Bellezza. Annunciare la parola è un’arte. Lo attesta il parlare di Gesù che
sfocia sempre in poesia. L’annuncio della parola diventa spesso un canto. La
parola si visualizza poi nell’immagine e si materializza nell’architettura. È
il cammino dell’incarnazione: il Dio invisibile si rende visibile nel volto di
Cristo, eikôn, “icona-immagine”
divina perfetta (cf. Col 1, 5).
L’avevano ben compreso Sant’Eugenio e i suoi primi missionari. Ogni loro
missione al popolo richiedeva l’arte oratoria, il canto, la teatralità di
alcune cerimonie… Già nel 1826 sant’Eugenio fece stampare una Raccolta di canti e di preghiere ad uso dei
Missionari Oblati di Maria, detti di Provenza. Fu seguito da molti altri
Oblati, che scrissero inni e pubblicarono raccolte di canti nelle più diverse
lingue, per coinvolgere nella preghiera i nuovi cristiani. Tra i tanti possiamo
ricordare Alfred Chambeuil che pubblicò in lingua montagnese (1853), Jean-Régis
Déléage in maskégon (1860), Nicolas Burtin in mohawk (1873), Mons. Jules-C.
Cénez in sisuto (1898), Constant Chounavel in tamil (1896) e in singalese
(1911), Joseph Hippolyte e Swaminader Gnanaprakasar ancora in tamil (1902 e 1903), Henri Jacobi
in nama o hottentot (1908), Léon Carrière in otchipwé (1910), Jean Guidard in
algonchino (1914-1916), e potremmo continuare con una lista infinita.
Nel campo della musica la storia delle missioni oblate conosce dei veri e
propri musicisti. P. Pierre Nicolas (1812-1903) “principe dell’armonia”, come
lo chiamava Mons. Léonard Berteaud, vescovo di Tulle, promosse un
rinnovamento musicale nell’ambito pastorale, pubblicando una Raccolta di Cantici ritmati (Paris,
1885). Simon Scharsch (1860-1928) ha pubblicato molte composizioni sacre, tra
cui possiamo ricordare Jesu dulcis amor
meus e Jesu dulcis memoria.
L’Università di Ottawa, retta dagli Oblati, in risposta al Motu proprio di Pio X e alla Costituzione Divini cultus di Pio XI, nel 1831 istituì una “Scuola di musica
religiosa”.
Wilfried Joye, Oblato |
Le stesse motivazioni apostoliche animano p. Chounavel, versato nell’arte oratoria, musicista, pittore. Al termine della missione a Trincomalee, nello Sri Lanka, dipinge lo stendardo della confraternita maschile di san Giovanni Battista con l’immagine del Precursore. Dipinge inoltre le stazioni della via crucis e altri grandi quadri.
Occorrerebbe menzionare gli Oblati che hanno lavorato per valorizzare e salvaguardare l’arte indigena. Un esempio per tutti: a P. Charles Arnaud, dopo cinquant’anni di lavoro missionario tra gli autoctoni del nord est canadese, si deve l’allestimento del museo di storia naturale nell’Università cattolica di Ottawa, a p. Louis Doazan quello della cultura contadina in Corsica.
Se dal passato dovessimo venire al periodo più recente e al presente troveremmo un non minor numero di Oblati dediti a musica, pittura, scultura, architettura, cinema. Vi sono artisti con una notorietà a livello mondiale, Frans Claerhout e Wilfried Joye in Sud Africa, Joseph Tsupa Sueho in Giappone. Ma anche scrittori e poeti come James Flavin negli USA, René Fumoleau in Canada, Andrzej Madej in Tuskmenistan…
L’evangelizzazione non può fare a meno dell’arte. Nel messaggio che Paolo
VI consegnò agli artisti in Piazza San Pietro l’8 dicembre 1965 alla chiusura
del Concilio, si legge: «Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non
oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la
gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del
tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione». Il 7 maggio
1964 li aveva convocati nella Cappella Sistina e aveva lanciato loro la grande
sfida: «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola,
di colori, di forme, di accessibilità».
È una sfida che anche i missionari hanno raccolto.
Il
carisma! Abitualmente si entra in contatto con un carisma “collettivo” attraverso
la mediazione di quanti lo vivono in quel momento, in quel luogo. Soltanto in
un secondo tempo si acquista la consapevolezza delle origini e della portata
storica.
Trattandosi
di una “esperienza” il carisma non è una realtà statica, confinata in un
passato aureo; per sua natura è vitale, dinamico, al pari dello Spirito che lo
dona, e genera un processo evolutivo che difficilmente si presta a essere
circoscritto in schemi o definizioni. Non si può definire la vita. Anche se si
arriva a formularlo dottrinalmente, esso rimane comunque una storia, un’azione
concreta dello Spirito Santo che opera nella vita di una persona. È
un’esperienza condivisa, che continua nel tempo e si sviluppa attraverso nuove
esperienze. Per “dire” un carisma occorre dunque narrare una storia che ha non
soltanto un inizio, ma una continuazione e che si arricchisce passando di
generazione in generazione, grazie al suo intrinseco dinamismo.
Il
primo impatto con ogni carisma è con una “narrazione” contemporanea: lo si vede
in azione, come realtà viva e operante in alcune persone. Chi è chiamato a quel
carisma ne è attratto per “consonanza”: si vede rispecchiato in
quell’esperienza concreta, sente espresso in esso ciò che già è stato seminato
dallo Spirito nel proprio cuore: è quello che voglio, mi sento chiamato a
vivere così. Il carisma è dunque narrato al presente.
Una
volta entrati nella narrazione, ogni generazione sente l’esigenza di ascoltare
l’esperienza fondativa iniziale e del suo cammino storico. Sarà allora capace
di guardare alle origini come alle proprie radici e di narrare a sua volta la
storia degli inizi e di reinterpretarla grazie alla continuità del vissuto. Il
carisma si trasmette narrando una storia che prosegue nell’oggi. Si legge il
passato per capire il presente e per preparare in modo creativo il futuro: un
fondatore non rimane indietro, cammina davanti.
Il
nostro “pellegrinaggio” a La Varna è stato preceduto da sant’Antonio da Padova,
da san Bonaventura che qui ha scritto “L’itinerario della mente a Dio”, da san
Carlo Borromeo, san Giovanni Bosco, fino ad Armida Barelli (prozia di p.
Eugenio), da Giorgio La Pira, Giovanni Paolo II… Siamo in buona compagnia.
Rileggo
quanto scrissi anni fa a commento del Vangelo di questa domenica. Forse ero un
po’ utopico…
Amare
i nemici? Ma se non funziona più neppure l’antica convenzione di Ginevra sui
prigionieri di guerra! I nemici vengono umiliati, torturati, mutilati, uccisi, e i filmati mostrati orgogliosamente sulle tv, diffusi su internet. L’odio monta
tra le parti avverse e cresce coll’innalzarsi dei muri e delle barriere,
penetra tra il vicinato e perfino nella famiglia, come ci raccontano ogni giorno
le cronache. Si è invertita anche la nozione di martirio, non più usata per chi
viene ucciso in nome della verità e della fede, ma per chi uccide in nome della
vendetta.
Certo
che Gesù incanta con la sua utopia: amare i nemici, fare del bene a chi ci
vuole male, dare più di quanto ci è chiesto... Ma dice proprio sul serio? Non è
un po’ esagerato? Poi però ci fa riflettere richiamando la «regola d’oro»:
quello che vorreste fosse fatto a voi, fatelo agli altri. Certo che se la
misura dell’altro sono io... È vero, mi piacerebbe che l’altro mi venisse incontro
perdonando i miei sbagli, prevenendo i miei desideri. Se nell’altro vedessi me
forse il mio comportamento nei suoi confronti sarebbe diverso.
Ma Gesù non si ferma alla «regola d’oro», che pure, se messa in pratica, basterebbe
a cambiare il mondo. Ci fa puntare lo sguardo più in alto: vedere l’altro come
lo vede il Padre e trattarlo come Lui lo tratta. Come guarda Dio il mio nemico?
Non lo vede come un figlio suo? Vuole il bene dei figli e lo vuole ancora di
più quando sono ingiusti e malvagi. È misericordioso e perdona.
Se io
sono figlio suo non gli devo assomigliare? Non somiglia ogni figlio al padre?
Se gli somiglio devo comportarmi come Lui, al punto che non posso dirmi figlio
suo se non mi comporto come Lui e se non vedo l’altro come lo vede Lui: vedo
l’altro figlio di Dio (un fratello, una sorella, dunque, se anch’io sono figlio
di Dio), da Lui amato; e lo amo fino a volere il suo bene. Sono quindi pronto a
perdonarlo quando mi ha offeso, ad aiutarlo quando è nel bisogno...
Forse Gesù non ci ha ancora convinto e allora gioca l’ultima carta e ci fa capire che in fondo amare l’altro torna a nostro vantaggio: se non vuoi essere giudicato da Dio, non giudicare; se non vuoi essere condannato da Dio, non condannare; se vuoi essere perdonato da Dio, perdona.
La
nostra condanna o la nostra assoluzione non dipendono dalla nostra colpevolezza
o innocenza (lo sappiamo che siamo sempre colpevoli davanti a Dio); dipende dal
nostro atteggiamento verso il prossimo, se l’abbiamo condannato o assolto. Il
dono inestimabile del Regno eterno e la misura buona, pigiata, scossa e
traboccante è proporzionata a quando avremo donato.
Padre
nostro che sei nei cieli,
obbedienti alla parola del Signore
e formati al suo divino insegnamento
ogni giorno ti chiediamo
di perdonare a noi i nostri debiti
come noi li perdoniamo ai nostri debitori.
Rendici perfetti nell’amore
per essere tuoi veri figli
e costruire sulla terra la tua famiglia
che sempre rinasce dalla misericordia e dal perdono,
dall’accoglienza e dal dono.
Fa’ sorgere l’era nuova della giustizia e della pace
e che si viva in terra come in cielo.
Ieri
alla Verna era un tempo da lupi e speravo davvero di veder scendere qualche
lupo… Oggi giornata fredda ma piena di sole. All’alba, dal piazzale antistante
la chiesa, la vallata di lasciava contemplare inondata da un mare di nubi,
mentre in alto il cielo si colorava di rosa e la luna piena splendeva dietro la
croce, nel più alto silenzio.
«Pax
Christi. Gesù e Maria speranza mia. Fra Masseo peccatore indegno, servo di Gesù
Cristo, Compagno di fra Francesco da Assisi huomo a Dio gratissimo.
Pace
e salute a tutti i fratelli e figlioli del gran Patriarca Francesco Alfiere di
Cristo.
— Risolvendo il gran Patriarca di pigliare l'ultimo vale da questo Sacro Monte alli XXX di Settembre MCCXXIII il giorno della solennità di San Girolamo havendogli il conte Orlando Conte di Chiusi mandato un somaro acciò sopra di esso cavalcasse non potendo posare i piedi in terra per riavergli piagati e confitti con chiodi, la mattina per tempo riavendo udito Messa in S. Maria degli Angioli conforme al suo solito chiamati tutti nell'oratorio ci comandò per obedientia che stessimo tutti in charità, che attendessimo all'oratione et che avessimo cura del luogo diligente et che noi lo offitiassimo dì et notte. Di più raccomandò tutto il Sacro Monte esortando tutti li suoi frati tanto presenti quanto futuri a non permettere mai che detto luogo sia profanato, ma sempre rispettato et riverito dando la sua benedizione a tutti quelli che vi habitaranno et a quelli che gli portaranno riverenza e rispetto.
Per il contrario disse: siano confusi quelli che a questo luogo non saranno rispettevoli et da Dio ne aspettino il meritato castigo. Mi disse: Fra Masseo, sappi che la mia intentione è che in questo luogo vi stiano Religiosi timorati di Dio et de' migliori del mio ordine: che però si sforzeranno li Superiori di mettervi frati dei migliori. Ah — ah — ah — fra Masseo — non dico altro. Ordinò et impose a noi frat'Angelo, fra Silvestro, frat'Illuminato et fra Masseo, che havessimo speciale cura del luogo dove successe quella gran meraviglia della impressione delle Sacre Stigmate. Ciò detto, disse: a Dio, a Dio, a Dio, Fra Masseo. Dipoi rivolto a frat'Angelo disse: a Dio, a Dio, a Dio, frat'Angelo, et il simile disse a fra Silvestre et a fra Illuminato. Restate in pace figli carissimi. Dio vi benedica figli carissimi: a Dio, io mi parto da voi con la persona, ma vi lascio il mio cuore. Io me ne vado con fra Pecorella di Dio, et me ne vo a S. Maria de gli Angeli et qui non farò più ritorno. Io mi parto, a Dio, a Dio tutti; a Dio Monte, a Dio, a Dio Monte Alverna, a Dio Monte d'Angeli, a Dio carissimo, a Dio carissimo. Fratello Falcone ti ringratio della charità che meco usasti, a Dio, a Dio Sasso spicco, già più non verrò a visitarti. A Dio Sasso, a Dio, a Dio, a Dio Sasso, che dentro alle tue viscere mi ricevesti, restando il demonio schernito, già più non ci rivedremo. A Dio S. Maria degl'Angeli, ti raccomando questi miei figli, Madre del Eterno Verbo. Mentre il nostro caro Padre diceva queste parole, versavano gli occhi nostri fonti di lacrime, onde se ne partì ancora lui piangendo, portando via li nostri cuori, restando noialtri orfani per la partenza di un tanto Padre.
Io
fra Masseo ho scritto tutto, Dio ci benedica».
Il padre guardiano, nel leggere, si commuove. È un testo che egli, 215° successore di fra Masseo, ogni anno legge solennemente davanti a tutta la comunità il 39 settembre, così come hanno sempre fatto i suoi predecessori.
Mai come questa volta, nelle precedenti visite alla Verna, mi ha impressionato la tenacia con cui la della comunità tiene viva la memoria di san Francesco. Da 591 anni ogni giorno i frati, nel primo pomeriggio, dopo il canto dell’ora Nona, vanno in processione alla cappella delle stigmate cantando una lode nella quale narrano del soggiorno di Francesco alla Verna. Giunti sul posto leggono un suo scritto, seguito da uno dei tanti racconti delle Fonti sul dono delle stimmate. Viene letto proprio lì, dove l’evento si è compiuto. Ieri abbiamo letto la bolla di Gregorio IX nella quale asserisce la veridicità delle stigmate. E questo ogni giorno! Secondo le cronache una sola volta la processione fu sospesa per una terribile tempesta di neve: il giorno seguente sulla neve c’erano le impronte dell’orso e del lupo che – sempre secondo le cronache – avevano sostituito i frati nell’andare a fare memoria delle stigmate!
Il francescanesimo non si è fermato a quel momento. Lo Spirito Santo, che ha guidato Francesco, ha continuato a guidare l’Ordine. Anche Francesco ha potuto dire, come Gesù, che consegnava il suo spirito ai frati i quali avrebbero continuato la sua esperienza e avrebbero fatto di più. Lo stesso Spirito Santo che ha suscitato il carisma di Francesco ha continuato ad animare i frati dicendo loro cose sempre nuove e suscitando “nuove narrazioni”. Eppure i frati continuano la memoria della “prima narrazione”, che custodiscono fedelmente, con le stesse parole di 800 anni fa, sempre ispiratrici di “nuove narrazioni”. E lo fanno senza nessun complesso di dipendenza dal passato, senza tema di essere considerati ripiegati sul Fondatore o fanatici della sua memoria, anzi suscitando ogni volta l’ammirazione di quanti li seguono nella processione.
Attorno alle grotte nelle quali Francesco con i suoi frati prese dimora, lungo i secoli sono sorte le costruzioni più varie, in nuda pietra, abbellita dalla pietra serena. Non è stato seguito un piano prestabilito, ma tutto è sorto per rispondere alle esigenze che sorgevano di tempo in tempo. Eppure una sapienza architettonica e uno spiccato gusto dell’arte hanno fatto della Verna un complesso armonico di straordinaria bellezza. Andrea della Robbia, seguito dalla sua scuola vi ha lasciato i suoi capolavori.
In questi giorni mi muovo con stupore e meraviglia fra
chiostri, corridoi, scale, antri nascosti, ceramiche, capolavori celati, in una continua
contemplazione del bello. Scopro piccoli gioielli d’un’arte minore, nati per
tenere viva la devozione, come una maiolica su un pianerottolo con una
preghiera alla Vergine perché scaldi il cuore ghiacciato.
Ma sono tanti gli ambienti, che scopro giorno per giorno, capaci di raccontare storie antiche, come la dispensa che per secoli ha custodito i beni preziosi del vino, olio, formaggi, pani, indispensabili per il sostentamento della numerosa comunità di frati in tempi di ristrettezze economiche. Anche qui armadi lavorati artigianalmente e poveramente, ma sempre con gusto, perché tutto deve cantare la bellezza di Dio.
Alla tavola del convento dei frati della Verna il padre
guardiano mi ha assegnato il posto accanto a p. Eugenio Barelli perché sa che
siamo amici e ci conosciamo da tanto tempo.
È un mistico, p. Eugenio. Dal 1983 ha ridato vita al Romitorio
delle Stimmate, per tenere viva nell’Ordine francescano la dimensione
contemplativa essenziale nell’esperienza di san Francesco. Ha scritto molto al
riguardo e proprio il mese scorso è apparso un volume di Paolo Zambollini sulla
sua esperienza e sulla sua interpretazione della dimensione contemplativa dell’Ordine
francescano. Mette soprattutto in luce la dimensione ecclesiale di questa esperienza,
senza la quale l’eremo sarebbe un’esperienza sterile: «È necessario essere una “cellula
Chiesa”, corpo di Cristo e sua sposa per poter abitare nel seno del Padre e
vedere la sua gloria». Seduti l’uno accanto all’altro mangiamo la buona cucina
conventuale e parliamo di cielo…
A conferma del suo profondo senso ecclesiale mi passa un
breve scritto di Chiara Lubich su una sua visita a La Verna nel 1966:
«Tempo fa sono stata alla Verna. Vi ho meditato
l’eccezionale dono delle stigmate che Dio ha fatto a Francesco, a suggello
della sua imitazione di Cristo, del suo essere cristiano. Ho pensato che tutti
i veri cristiani dovrebbero essere degli stigmatizzati, non già nel senso
straordinario ed esterno, ma spirituale. E mi è parso di capire che le stigmate
del cristiano dei nostri giorni sono appunto le misteriose ma reali piaghe
della Chiesa di oggi. Se la carità di Cristo non è così dilatata da provare in
noi il dolore di queste piaghe, non siamo come Dio oggi ci vuole.
In questo tempo non è sufficiente una santità solo
individuale, e nemmeno una comunitaria, ma chiusa. Occorre sentire in noi i
sentimenti di dolore e anche di gioia che Cristo nella sua Sposa oggi sente. Occorre
santificarci Chiesa».
«Queste parole del Santo Padre – racconta p. Eugenio – ci
confermarono nella decisione di fare un gemellaggio tra il nostro Santuario e
il Santuario della “Collina delle Croci” in Lituania, come risposta a quanto il
Santo Padre aveva detto nel nostro Refettorio. Iniziammo subito i contatti con
i Confratelli Lituani e con rappresentanti dell’Episcopato di quella Nazione.
Il gemellaggio avvenne nella mattina del 18 settembre 1994, in occasione della
benedizione di un grande Crocifisso inviato dal Papa alla “Collina delle
Croci”, a ricordo del suo Pellegrinaggio».
Oggi a La Verna nevica… Luogo d’arte, di una natura
incantevole, di storia secolare, La Verna è soprattutto un luogo carismatico,
come Subiaco. I santi, in certi luoghi dove sono passati, lasciano la loro
impronta indelebile e rimangono vivi e presenti con il loro messaggio
evangelico. Sì, questo luogo parla.
Ma parla soprattutto la comunità che san Francesco vi ha
lasciato. Nella basilica ogni giorno l’ufficio cantato, accompagnato da un
organo d’eccezione, introduce nella preghiera. Così come la processione che
ogni giorno porta alla cappella delle stigmate con una ritualità semplice e
profonda. Pranzo e ceno nel refettorio con i frati e anche questa è una
liturgia, d’un altro timbro, d’un tono fraterno, ilare, amicale, che parla di
perfetta letizia.
Mi piaceva andare nell’ufficio del babbo perché mi lasciava scrivere a macchina. Avrò avuto otto anni. C’erano tanti altri strumenti preziosi che mi attiravano, come la spillatrice, i barattoli della colla, l’etichettatrice… Anni fa in quegli uffici è andata ad abitare una comunità di frati francescani, che si dedicava alla pastorale dei cinesi…
Alla Verna trovo il padre guardiano: era uno dei frati che abitava in quegli uffici trasformati in conventino. Ho così saputo che proprio l’ufficio del babbo era diventato la loro cappella…
Siamo più abituati a leggere le beatitudini così come le riporta il Vangelo di Matteo, più spiritualizzate («Beati i poveri di spirito... Beati gli affamati di giustizia...»), e senza i guai! Sono terribili questi guai.
Seduto davanti al tuo tabernacolo, con
in mano penna e carta bianca, non sono povero. Li ho visti i poveri ad Haiti,
nelle Filippine, in India... Non hanno penna e carta. È allora per me il tuo
tremendo “guai”?
Oggi ho pranzato. Non ho fame. È per me il tuo secondo inappellabile “guai”?
Ho la gioia di stare con te, nel
silenzio e nella quiete della cappella. È per me il tuo terzo agghiacciante
“guai”? Sono stimato e amato da tanti. È per me il tuo “guai” di condanna? Non
possiamo addolcire, attenuare, edulcorare le tue parole. Troppo dirette e
nette. Inquietano, scavano, fanno giustizia di ogni ipocrisia.
Tu sì che sei stato povero, senza una
pietra dove posare il capo. Tu sì che hai provato la fame nei quaranta giorni
di deserto. Tu sì che hai pianto sulla tua città e hai provato una tristezza da
morire quand’eri nell’orto.
Tu sì che sei stato deriso, odiato,
disprezzato, oggetto delle più violente crudeltà.
Tu sei beato e rendi beati. Riscatti
poveri, emarginati, oppressi, vittime di ingiustizie...
L’avevi detto, a Nazaret, che lo
Spirito ti aveva mandato dai poveri, dai prigionieri... L’aveva detto la madre
tua che avresti innalzato gli umili e colmato di beni gli affamati. Il Regno
dei cieli, il mondo nuovo, è giunto tra noi e lo dai in dono, gratis, a quanti
ne sembrerebbero i più lontani, gli esclusi. Gli infelici e i maledetti tu li
rendi beati.
Oggi ci insegni a guardare con occhi
nuovi, con i tuoi stessi occhi, i “disgraziati” della terra, a riconoscerli
come i “graziati”, l’oggetto del tuo amore di predilezione. Ascoltando le tue
parole essi divengono oggetto anche del nostro amore di predilezione. No, non
mi maledici, anche se non sono tra i poveri, gli affamati, gli afflitti, gli
scartati. Ma mi ricordi con forza che la pienezza, la sazietà, la gioia, la
consolazione vengono soltanto da te. Non possiamo cercare il bene nei beni e
nel “benessere”. Tu sei l’unico Bene e ciò che ci rende veramente beati è solo
il Regno dei cieli, un dono tuo.
Te solo io voglio, mio unico Bene,
e quello che tu vuoi.
Sgombraci il cuore da inutili cose
e sia accogliente del Regno dei cieli.
Tu, l’unico appoggio sicuro,
la sazietà, la gioia e la pace.
Volgi il nostro sguardo ai disgraziati della terra,
aprici con loro al tuo dono,
accomunati nella stessa speranza.
In te confidiamo, Signore,
non saremo confusi in eterno.
Chi è l’Oblato a cui santa Bernadette scrisse per la prima volta la storia delle apparizioni?
Charles Ferdinand Gondrand
nacque a Saint-Siméon-de-Bressieux, diocesi di Grenoble, l’11 giugno 1824, da
una famiglia piuttosto povera. Sant’Eugenio scriveva in proposito il 22 ottobre
1853: “Non ho dimenticato che [la sua famiglia] era già molto povera quando l’abbiamo
accolto bambino per nutrirlo, vestirlo, prenderci cura di lui ed educarlo per
anni e anni”.
Subito dopo l’ordinazione fu
inviato al seminario maggiore di Ajaccio dove insegnò filosofia (1847-1848).
Padre Magnan, superiore, trova che il giovane professore ha ottime qualità ma troppa
fiducia in se stesso. «Ha cuore e buone intenzioni, scrive al Fondatore, ma ha
bisogno di maturare un po’ prima che possa essere mandato s insegnare in un seminario”.
Fu così inviato a Limoges,
dove il superiore lo trovò molto adatto alla predicazione. Così, nel 1850, p. Gondrand
predicò la Quaresima nella cattedrale di Limoges. Il Fondatore scrive a lui e
al suo compagno per esprimere loro tutto il suo affetto, invitandoli alla
regolarità e allo studio. Il 16 aprile 1850 scrive di nuovo ad ambedue rallegrandosi
per i loro successi apostolici e li invitandoli all’umiltà: “Siete giovani,
badate che non vi entri in cuore la vanagloria. Lo sapete, perdereste tutto il
merito del vostro lavoro”.
Dal 1851 al 1853 è a Marsiglia
come professore e predicatore. Il Fondatore gli chiese subito di predicare in
occasione della consacrazione del vescovo Allard. «Alla presenza di cinque
vescovi e di un uditorio innumerevole», scriveva il Fondatore a padre Tempier,
«il 19 luglio padre Gondrand ci diede uno straordinario sermone sull’episcopato,
con quel suo prodigioso talento che stupisce tutti”. Ma a padre Tempier non
piaceva lo stile oratorio di padre Gondrand, non lo riteneva in linea con la
tradizione oblata: “sprazzi di una metafisica incomprensibile che soddisfa solo
le orecchie di pochi privilegiati, con gesti e contegno di un commediante”.
Durante l’estate del 1853,
padre Gondrand va a casa sua dove è appena morto uno dei suoi fratelli che
aveva lasciato una famiglia numerosa nel bisogno. Così chiede la dispensa dai
voti per poter aiutare la famiglia. Ma sant’Eugenio gli ricorda: “Devi aver
dimenticato i doveri della tua vocazione per credere che i vincoli perpetui da
te contratti davanti ai santi altari, e che un giuramento in qualche modo
pronunciato tra le mani dello stesso Gesù Cristo, possano essere sciolti per le
ragioni che mi esponi [...] Scioglierti dai voti, mai”. Tuttavia lo autorizza a
lavorare fuori della comunità oblata, per aiutare la famiglia (tra l’altro il padre
è anziano e ammalato), a condizione che viva in spirito di povertà e mantenga i
rapporti con il Superiore Generale.
È quello che fa padre
Gondrand, mantenendo sempre la corrispondenza con il Fondatore e padre Casimir
Aubert, Segretario generale.
Divenuto parroco a Bourgoin (Isère),
continua a svolgere il ministero di “missionario apostolico” in quasi tutta la
Francia. È in questo periodo che guida gli esercizi spirituali ai sacerdoti
della diocesi di Tarbe, incontra santa Bernadette, intrattiene una
corrispondenza con lei, che gli scrive, per la prima volta, la storia delle apparizioni.
Dopo la morte del vescovo de
Mazenod, padre Gondrand scrisse a padre Tempier il 26 novembre 1861 per
chiedere la dispensa dai voti: “Non considerarmi un ribelle che merita i tuoi
anatemi, ma piuttosto come una persona sofferente, ancora degna delle tue
sollecitudini”. Padre Tempier, allora vicario generale della Congregazione,
scrive su questa stessa lettera: “Risposta, 30 novembre, concessa dispensa”.
Dopo Bourgoin, p. Gondrand fu
parroco di Saint-Chef (Isère) dove morì nel 1890. Predicò e pubblicò alcuni dei
suoi sermoni, in particolare Le Beatitudini evangeliche (Marsiglia,
1881). Dopo la sua morte, i padri Pierre Nicolas e Marius Devès, omi, pubblicarono
sette volumi dei suoi discorsi (Parigi, 1897-1901).
Delle sue predicazioni
abbiamo ottimi giudizi: «Sondava tutte le profondità evangeliche» (Mons. C.L.
Gay, vescovo ausiliare di Poitiers). Le sue «conferenze rivelano il teologo, il
l’asceta, il pensatore, lo scrittore» (Mons. Gaspard Mermillod, vescovo di
Losanna e Ginevra, poi cardinale). Padre Burfin, omi, considerava gli scritti
di padre Gondrand “opere di genio” e padre Charles Baret,.omi, diceva: “Non
conosco nella storia un genio creativo come Gondrand”.
È il più televisivo degli Oblati. Ogni sera p. Nicola Ventriglia guida il rosario in lingua italiana dalla grotta di Lourdes. A ricordarci lo stretto legame tra gli Oblati e Lourdes. Un legame antico, che risale a quando padre Ferdinand Gondrand, che era stato invitato da mons. Laurence, il vescovo di Tarbes, a predicare il ritiro dei sacerdoti nel 1860 a Lourdes. Questo Oblato, conquistato dalla veggente e persuaso della verità di Bernardette che allora stava imparando a leggere e a scrivere nel collegio delle Suore di Naver, iniziò con lei una corrispondenza, chiedendole anche un racconto scritto. Nel maggio 1861 quando venne una seconda volta a Lourdes, sempre per predicare un ritiro, Bernadette acconsentì alla sua richiesta con la lettera del 28 maggio 1861: è il primo racconto scritto delle apparizioni. Ma padre Gondrand non ricevette mai la lettera perché, avendo saputo della morte di mons. de Mazenod, si era precipitato a Marsiglia. La lettera ritornò così a Bernadette, che la conserverà fino alla morte.
Dobbiamo poi ricordare che nel 1876 papa Pio IX delegò
il card. Oblato Guibert, arcivescovo di Parigi per consacrare in suo nome la
basilica dell’Immacolata Concezione.
Nel 1881 vi fu il primo pellegrinaggio nazionale proveniente
da fuori della Francia: 300 pellegrini inglesi, tra i quali il duca di Norfolk,
guidati dall’Oblato padre Ring.
Per
oltre 50 anni, dalla fine degli anni Sessanta del 1900 fino quasi agli anni
Venti del 2000, la formazione degli Oblati italiani è stata segnata dalla
figura di tre persone, p. Angelo Dal Bello, p. Marino Merlo, p. Sante
Bisignano. I formatori, a Marino e Vermicino, si sono succeduti numerosi in
quegli anni, ma questi tre Oblati hanno dato un’impronta fondamentale che ha
guidato il percorso di tanti.
Chissà
perché mi è nato il desiderio di evocarli, con poche note veloci. Senza
pretese. Con un taglio personale. Forse per un debito di riconoscenza, una
memoria gradita e doverosa, il ricordo di un esempio che chiede di essere
mantenuto vivo.
Sto così scoprendo e riscoprendo pagine straordinarie della loro vita e dei loro scritti. Come queste poche parole di padre Marino.
Durante
la missione di San Giacomo a Messina, nel marzo 1980, ricordava ai missionari quanto
sia essenziale l’unità fra tutti, spiegando che «L’unità non è un modo di essere
nostro, ma una persona: Gesù. L’unità non è un accorgimento che noi abbiamo assunto
durante la missione, ma Cristo Gesù, “Da questo e per questo crederanno”. L’unità
poi è un dono che ci dà Lui, a quel punto comincia l’avventura sia durante la missione,
sia nella nostra vota di sempre».
Nella
missione di Nettuno, marzo-aprile 1981: «La missione è un’occasione per vivere noi
alcune realtà fondamentali della nostra vita. È lo stare con Gesù tra noi, per essere
illuminati dalla sua sapienza. È Gesù che va, che fa, che dice. (…) Certamente nel
nostro cammino di santità la missione è anche un momento privilegiato di grazia
per noi. L’acqua viva che si riversa sui fratelli attraverso di noi, prima di arrivare
a loro arriva a noi e ci purifica. Siamo noi la prima terra su cui Gesù sta svolgendo
la sua a, questo domanda una grande attenzione».
Ogni
giorno è una litania di santi. Il calendario ne riporta uno alla volta, ma ogni
giorno è l’anniversario di tanti santi. Oggi è la festa di san Girolamo Emiliani.
Come non gioire di questo gigante di santità? E il pensiero va ai
Somaschi che ho conosciuto, a Giacomo, carissimo coetaneo ormai in cielo, ad Andrea con il quale ho condiviso tanta strada… E vorrei scrivere a tutti i
Somaschi e alle Somasche… Ma oggi è anche la festa di Bakhita. Il romanzo di
Véronique Olmi ne l’ha rivelata come una donna d’una storia eccezionale, unica:
come non chiamarla accanto a me e lasciare che mi racconti ancora la sua incredibile avventura? Ma oggi è anche la festa di Stefano di Muret che sempre, durante
le mie lezioni, ricordo per quanto diceva del Vangelo come unica e universale
Regola di vita per tutti gli Ordini. Ma oggi è anche la festa di Madre Speranza
di Collevalenza, dove sono stato tante volte; e vorrei chiamare gli studenti e
le studentesse dell’Amore misericordioso a cui ho avuto come alunni all'università e congratularmi
con loro per una tale madre… E sono soltanto quelli che conosco, perché
oggi ricorrono tanti altri santi. Così, nei giorni in cui non trovo nessuno che conosco diventa l’occasione per fare nuove conoscenze… E' come cantare costantemente una litania dei santi.
Non
siamo mai soli!
La
foto sembra quella di un penitenziario, ma è solo colpa delle precauzioni anti-Covid.
Di fatto, quando l’altro giorno ho parlato a Santa Maria a Vico l’attenzione
non è calata un attimo: il soggetto era troppo interessante: il solito
onnipresente Giovanni Santolini. Ho raccontato di lui del suo fare da clown e
della sua profonda interiorità, delle sue notti e dei suoi momenti
luminosissimi…
Il tempo
della sua commemorazione si avvicina e Genova (e non soltanto Genova) si sta
preparando. In città, dal 20 al 27 marzo si terrà una grande missione,
nelle parrocchie, nelle scuole… Una bella equipe di giovani Oblati si sta
organizzando, assieme ad altri giovani e adulti. Per l’occasione è stato creato
anche un sito internet che vale la pena seguire: www.