giovedì 31 agosto 2023

Ai Campi di Annibale per l’MC4U

Siamo sul cratere principale dell’antico vulcano di Albano, una distesa ampia e serena ai piedi del Monte Cavo, proprio sopra Rocca di Papa. Vista ampia su Roma, fino al mare. La tradizione racconta che qua si sarebbe accampato Annibale con il suo esercito ma, guardando Roma, si sarebbe impaurito rinunciando di attaccarla. Forse la zona prende più semplicemente nome dal signore del luogo, Annibale Annibaldi. Pensare qui il grande generale Annibale è comunque tutta un’altra cosa.

Da un incontro all’altro. Oggi è iniziato quello del MC4U. Non mi trovo molto a mio agio con gli acronimi, meglio Movimento Carismi per l’Unità.

Come non ricordare quel mese di settembre tanti anni fa – 1970 – quando, pochi giorni precedenti il termine del noviziato, partecipai al Centro Mariapoli di Rocca di Papa al mio primo incontro del Movimento dei religiosi. Che festa su riservata a noi che eravamo i più giovani. Micor (p. Giuseppe Savastano) ci presentò a tutti quale segno di speranza. Quell’incontro fu per me una scoperta straordinaria. Finalmente arrivavo al cuore di quella vita nella quale ero stato introdotto con tanta discrezione e gradualità ormai da cinque anni.

Allora mi colpirono due cose in particolare. La prima: quei religiosi, una quarantina, mi sembravano tutte persone di una grande statura morale, fortemente impegnate, seriamente decise a diventare sante. La seconda: appartenevano a molti Istituti religiosi, come appariva dalla varietà degli abiti che allora si usavano, e nello stesso tempo avevano un rapporto di comunione  tra loro straordinario. Davvero erano l’icona del “santi insieme”!

Oggi è ancora più bello perché siamo insieme religiosi, religiose, laici… Un’avventura che continua.



mercoledì 30 agosto 2023

Viaggio in Brasile

Ieri, visitando le stanze di san Camillo de Lellis, siamo passati dalla grande sala capitolare dove sono i ritratti di tutti i superiori generali che si sono susseguiti nel secoli. Ho visto anche quello di p. Calisto Vendrame, brasiliano, 56° superiore generale, eletto nel 1977. Il quadro non è tra i più riusciti, ma è proprio lui, come l’ho conosciuto negli anni Ottanta, quando davo qualche contributo all’Unione dei Superiori Generali. Nel 1985 gli dissi che sarei andato in Uruguay. La data del volo coincideva con un suo viaggio in Brasile e subito mi invitò a fare scalo a Rio de Janeiro con lui. Detto fatto. Viaggiammo insieme e fui suo ospite per tre giorni nei quali si dedicò interamente a me.

Sono passati quasi quarant’anni. Non so se ho qualche pagina del mio diario, ma ricordo tutto come fosse ora: Copacabana, il Cristo Redentore (l'unico foto di quel viaggio e quella con lui sotto la grande statua che domina la città e la baia), una favela alla cui entrata c’era un gruppo di armati fino ai denti, la festa di compleanno di una persona malata di mente chiusa dietro una inferriata… Immersione totale in una realtà per me nuovissima…

Grande biblista, una volta commentò la parabola del buon samaritano con gi occhi di san Camillo e con i suoi occhi di camilliano oggi concludendo:

“Non è detto che dopo quattro secoli di storia, da quando S. Camillo creò una "nuova scuola di carità" (come ebbe a dire Benedetto XIV), la situazione del malato sia sostanzialmente cambiata. Nel mondo industriale sono cambiate le strutture, la scienza medica ha fatto salti di qualità, si sono prodotte buone legislazioni, i ricoveri diventano a volte anche troppo frettolosi e l'alimentazione fin troppo abbondante... eppure si muore ancora di mancanza di amore. Sono più che mai attuali le parole di Camillo: "Un bravo infermiere ne può valere mille e mille non valerne uno", perché ci vuole "più cuore nelle mani". (…)

Ma se nella città industriale, nonostante il progresso scientifico, il malato soffre e muore di disumanizzazione, il malato del terzo mondo (malgrado la buona volontà di molti) continua a soffrire e morire per mancanza di tecniche e strutture che sarebbero disponibili anche per lui, se ci fosse più volontà politica di sviluppare e condividere messi di vita e di salute, piuttosto che produrre ed esportare mezzi di distruzione e di morte. Ogni giorno migliaia di fratelli e di sorelle muoiono ancora di fame e di malattie banali da molto vinte dalla scienza medica.

Questa triste realtà potrà cessare quando sorgeranno molti samaritani capaci di farsi prossimi dei malati anche oltre i confini della Samaria”.

martedì 29 agosto 2023

Carismatica Roma

 


Ancora una volta per le vie di Roma alla ricerca dei santi che l’hanno percorsa e vissuta prima di noi. Torno su luoghi noti e stravisitati: le stanze di sant’Ignazio a piazza del Gesù, quelle di san Filippo Neri a san Girolamo della carità, quelle di san Camillo de Lellis alla Maddalena. Luoghi che continuano a parlare, che raccontano storie meravigliose: vedere e toccare per capire.

Sono con una trentina di religiose e religiosi di mezza Europa desiderosi di conoscere. Una santità viva, di un passato che si rispecchia nel presente. 



lunedì 28 agosto 2023

Il deserto e il bosco


Scrivo sempre qualcosa di mio sul blog. Un esercizio quotidiano di meditazione, la più varia, anche se a volte sconclusionata. Oggi faccio una eccezione. Dal 25 maggio 2021 su sul desk del computer c'è un articolo di Roberto Rosano, Troppo povero per una colonna. L’antica leggenda di Rufo (e delle cicogne arrabbiate), apparso sull’Osservatore romano, di cui sono un quotidiano lettore on line. L’avevo lasciato lì (e poi dimenticato) perché pensavo di leggerlo, una volta o l’altra, in una delle mie lezioni. Ma ormai il tempo delle lezioni è terminato. Lo rileggo ad alta voce:

Il bosco e il deserto hanno in comune assai poco. Nella «forma esteriore», quasi nulla: riboccante il primo, vacante il secondo. Due polarità: il pieno e il vuoto. Da una parte, un intrico spontaneo, fitto di fronde, folto di peli, arruffato di una ferinità selvaggia; dall’altra, il fascino ruvido delle sabbie e delle pietre, il brulicame serpentiforme, ignudo delle sue creature. Eppure, fuori dell’inventario rigoroso delle scienze geografiche e territoriali, e dentro invece il catalogo esistenziale, affettivo e spirituale, bosco e deserto sono concetti contigui, potremmo dire quasi equivalenti: si oppongono rigorosamente, entrambi, allo spazio umanizzato e organizzato della «Civiltà urbana», sia essa contadina, sia essa industriale, sia essa post-industriale. Qui la ragione ha potuto poco, per questo gli uomini ne hanno sempre provato spavento o fascino.

In alcuni antichi poeti e mistici arabi, il deserto è un motivo ricorrente per significare il locus horridus, il no man’s land, l’ignoto, lo smarrimento, la brutale assenza di norme comuni, esattamente come lo è il bosco nella nostra poesia e nella nostra letteratura: pensiamo alle selve e alle foreste incantate ove si smarriscono gli eroi di Dante, Ariosto, Calvino o al bosco di Le Mans, ove vagabonda «Berta dai grandi piedi» e dove Carlo VI diventerà pazzo.

Ma tra deserto e bosco esistono almeno un altro paio di fils rouges. Uno ci conduce verso quella idealizzazione letteraria dei boschi e dei deserti che va da certi miti arturiani («Noi ritorniamo alla foresta che ci protegge e ci salva!» si legge nel mito di Tristano e Isotta), alla gaste forêt di Parceval, allo splendido realismo magico di Ibrahim al-Koni, che è riuscito a fare del Sahara un abbagliante locus amoenus. Un altro fil rouge ci conduce verso la perfetta equipollenza tra bosco e deserto nella narrazione, a volte autentica, a volte leggendaria, della fuga mundi: l’eremitismo cristiano orientale ha avuto anacoreti del deserto, esattamente come l’ascesi solitaria occidentale ha avuto santi, monaci, eremiti ed anacoreti del bosco. Potremmo dire che laddove l’Oriente, cristiano e mussulmano, ha avuto i suoi Padri del Deserto (Antonio il Grande, san Girolamo, Paolo di Tebe), l’Occidente ha avuto i suoi «Padri del Bosco»: san Bruno e i suoi compagni nella Grande Chartreuse, san Roberto di Molesmes e i suoi discepoli nel bosco di rose selvatiche di Citeaux, Eustachio il Monaco nei boschi del Boulonnais, sant’Uberto nei boschi dell’Austrasia. Quest’ultimo pare che abbia ricevuto una visione del crocifisso tra le corna d’un cervo, durante una battuta di caccia; mentre san Teobaldo di Provins, dopo aver letto in giovane età le biografie dei Padri del Deserto, ne rimane talmente affascinato da rinunciare alle ricchezze dei genitori, conti dello Champagne, per dedicarsi alla vita contemplativa nei boschi di Pettingen, insieme al suo fedele scudiero di nome Gualtiero.

Se diamo un’occhiata alle antologie dei cosiddetti Pateriká, che raccolgono detti e sapienza delle Amma (Madri) e degli Abba (Padri) che «portano la loro ombra magra alle rocce del deserto» — dalla Vitae Patrum, alla Storia lausiaca, alla celeberrima Vita di Antonio — scopriamo che gli incipit si somigliano un po’ tutti: «Il beato Macario trascorse quasi tutta la sua lunga vita nel deserto»; «Quando Nilo decise di abbandonare il mondo per rifugiarsi nel deserto», «Un giorno, cavalcando nel deserto della Tebaide». A loro volta, molti Pateriká e molte agiografie dell’Occidente cristiano — dalle leggende bretoni agli Acta Sanctorum — cominciano con espressioni di questo tipo: «Nei boschi di Bretagna, molti secoli fa, vivevano molti anacoreti», «Severo (…) decise di tornare nelle foreste della Normandia, dove era nato, per fare l’eremita».

E così come i deliziosi quadretti degli apoftegmi pullulano di demonietti, bestie e mostriciattoli del deserto, obbedienti all’ingiunzione del santo, le leggende auree del bosco hanno, a loro volta, un nutrito bestiario disposto a rabbonire: il più celebre di tutti, il lupo di Gubbio, non ha bisogno di presentazioni. Meno noti sono invece la Tarasca, vinta da santa Marta con l’acquasantiera e l’aspersorio; l’orso di san Romedio e il più illustre orso di san Corbiniano (entrato addirittura nell’araldica pontificia), entrambi ammansiti e sellati dopo aver sbranato i cavalli dei santi; le cicogne di Rufo stilita, in un’antica leggenda (stavolta orientale), ma di ambientazione al quanto forastica.

Quest’ultima leggenda, tanto affascinante quanto sconosciuta, è, come si suole dire, «all’altezza della chiosa». Un certo Rufo, di cui sappiamo assai poco, decide, sull’esempio di san Simeone, di farsi stilita, di passare cioè tutta la vita in cima ad una colonna, nel silenzio e nella preghiera. Ma, a causa della grande santità che regna a quel tempo, le colonne libere sono introvabili e Rufo è troppo povero per farsene costruire una. Un giorno, ai margini di un bosco, vede un trespolo con una enorme ruota di legno, su cui è poggiato un pagliericcio. Decide che quella sarà la sua colonna. Sale fin lassù e comincia a contemplare le cose del cielo.


In autunno, tuttavia, arrivano, dal freddo dei Paesi nordici, due cicogne assai prepotenti. Vedendo che il loro nido è occupato, si avventano su Rufo con grida e colpi di becco. Lo stilita parla loro con profonda dolcezza e le invita a seguire il messaggio fraterno di Cristo. Le cicogne, sorprese dalla dolcezza di Rufo e dalla Buona Novella, cominciano a grattargli la testa coi becchi e decidono di dividere il nido tutti assieme. Quando piove, ci racconta la leggenda, Rufo le copre col suo mantello; quando Rufo ha fame e freddo, le cicogne gli procurano nuova paglia e qualche frutto saporito. Un giorno che Rufo si duole di non essere più riuscito a fare la Santa Comunione, non avendo preti alla portata, le cicogne volano fino a Roma e tornano, dopo qualche giorno, con un’ostia nel becco, benedetta niente meno che dal Papa.


domenica 27 agosto 2023

A Genzano con la Scuola Abbà


Questa mattina ho cantato le lodi nel chiostrino dell’antico convento dei Cappuccini a Genzano. Ho avuto l’impressione di ridare senso a quelle mura e a quelle colonne, riportandole alla loro originaria vocazione. Anche se ormai da quasi due anni le giovani suore agostiniane venute dalla Spagna fanno risuonare dei loro canti il luogo santo, attirando giovani e meno giovani…

Ho passato tre giorni in questo luogo incantevole, sul crinale del lago di Nemi, tra lecci secolari, assieme alla Scuola Abbà con la quale, finalmente, riprendiamo gli incontri residenziali. Vale più un’ora a tu per tu che giornate davanti allo schermo e vale anche condividere la preghiera, i momenti di distensione, oltre che di studio e di condivisione intellettuale… Un’autentica convivenza. Compreso i pasti sotto l’antico leccio con una chioma di 25 metri di diametro e 350 anni d’età!

La Scuola Abbà, un’esperienza di cui faccio parte da quasi 30 anni, e che continua a far rivivere l’incanto del Paradiso.

Klaus Hemmerle definiva l’esperienza di questa originalissima “Scuola” intellectus unitatis, una realtà in cui il soggetto non è più l’io chiuso nella sua individualità e nel suo orgoglio intellettuale, ma che si apre al tu e al noi che nasce dalla reciprocità dell’amore. È l’esperienza di fare il vuoto dentro di sé per accogliere l’altro, per farsi uno con l’altro fino ad una autentica unità: si tratta di gettarsi senza riserve in un’esperienza di amore reci­proco che si apra alla Sapienza, frutto della presenza del Risorto. Si tratta di mantenere la mente senza pensieri e l’anima aperta a ciò che si manifesta in modo sempre nuovo. Definiva questa esperienza come un “pensa­re alla rovescia”, cioè pensare a partire non da sé stessi ma partire da ciò che si è fatti dalla grazia di Dio in que­sta esperienza di amore reciproco, che diventa il luogo del pensiero, la luce che potenzia l’intelligenza personale e la spinge verso nuove frontiere.






sabato 26 agosto 2023

Andiamo o non andiamo?

"Vai nella vigna?" Un figlio dice sì e fa no, l’altro dice no e fa sì. Le nette parole di Gesù mettono con le spalle al muro: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. È così evidente, ma anche così sconvolgente... L’aveva già enunciato al termine del discorso della montagna: “Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio”.

Il volere del Padre, quello che Gesù è venuto a compiere scendendo sulla terra, quello di cui si è nutrito lungo tutta la vita… Se l'ha fatto lui?

Non è qualcosa di arbitrario, un capriccio frutto di un proposito dispotico: Dio fa come gli pare... È un piano d’amore, elaborato da tutta l’eternità, l’indicazione di un cammino che conduce ogni creatura alla sua meta finale e assicura la pienezza di vita, la gioia, la realizzazione perfetta di sé.

Obbedire? Una parola difficile da accettare. Sembrerebbe più giusto dire: Faccio come mi pare. Eppure si tratta semplicemente di entrare nella logica del Padre, fino al punto che i suoi pensieri siano i nostri pensieri, fino a cogliere il suo desiderio, realizzare il suo sogno che, anche quando non lo comprendiamo, è ciò che di più bello possa esserci per noi.

Obbedire = credere all’amore di Dio per me. 

Credo = ti accolgo, ti vivo, faccio ciò che tu fai, compio ciò che tu dici, vado dove tu vai (Già, dove vado? Dove mi porti? Lo so che è soltanto una parabola, ma mi piace pensare che, come ha fatto con te, il Padre invia anche me nella sua vigna, a lavorare per la nostra gente…).


venerdì 25 agosto 2023

Eroi e orde barbariche: come si scrive la storia

Sempre camminando per Roma leggo una delle tante lapide. È uno sport che mi piace fare di tanto in tanto per scoprire piccole grandi storie del passato.

Così in piazza san Francesco a Ripa vengo a conoscenza di un gruppo di armati che invade la patria altrui e di un gruppo di strenui difensori della patria. Chi sono gli eroi e chi le orde barbariche? E qui la storia diverge.

La lapide racconta di trecento Bersaglieri - me li immagino tutti giovani, mandati al macello - che “acclamati partenti dal popolo di Trastevere”, il 6 ottobre 1911 invadono la Libia e pochi giorni dopo, il 23, sono circondati e massacrati da quelli che si vedono invasi da truppe straniere. 

Secondo la lapide i difensori del suolo patrio sono “orde barbariche” (i Libici, stranieri in patria!), i nostri invasori "eroi".

Chissà se dall’altra parte del mare c’è una lapide che ricorda gli eroi che hanno difeso la libertà contro le orde barbariche giunte dall’Italia…

giovedì 24 agosto 2023

Un annuncio gioioso col profumo della testimonianza


Sono alle prese con p. Olegario. https://fabiociardi.blogspot.com/2023/04/la-felice-vecchiaia-di-p-olegario.html

Leggo un suo articolo del 1962: Cómo transmitió el mensaje misionera el cristianismo primitivo y cómo lo podemos transmitir hoy. Mi pare attualissimo.

Studia la trasmissione del messaggio evangelico nel cristianesimo primitivo cercando ispirazione ed esempio per la trasmissione del Vangelo in questo periodo, nella Chiesa di oggi:

“Pur con le enormi distanze temporali, culturali e ambientali, esiste una mirabile affinità e somiglianza tra l’impresa della cristianizzazione del mondo greco-romano e quella della cristianizzazione del mondo del nostro secolo […] Un manipolo di uomini disprezzati per la loro razza e senza alcun prestigio culturale, dovettero evangelizzare le popolazioni dell'Impero Romano, orgogliose della propria cultura e immerse nella più grande abiezione morale. Oggi la Chiesa cattolica, istituzione [...] sconosciuta a molti, sistematicamente odiata e screditata da altri, oscurata dal comportamento mondano di tanti suoi figli, sente sulle spalle il peso impressionante dell'evangelizzazione di due miliardi di infedeli, dominata in gran parte da un ambiente impregnato di materialismo, orgoglioso delle conquiste tecniche, sprofondato in una spaventosa miseria intellettuale e morale”.

P. Olegario riconosce, però, una notevole differenza tra i tempi apostolici e i nostri, per quanto riguarda l'annuncio del Vangelo: “Nei primi secoli il cristianesimo poté presentarsi al mondo in una veste nuova che suscitò attenzione e interesse; oggi la religione cristiana ha perso quella tinta di novità e di mistero e appare agli occhi della maggioranza dei pagani come una religione già logora e superata, senza interesse vitale per la nostra generazione ebbra di progresso tecnico, di cultura pragmatista e di umanesimo secolare. In ogni caso, ciò che hanno fatto gli Apostoli, nostri padri nella fede, sarà per noi norma e guida. Come loro dobbiamo annunciare la parola di salvezza, seminando il seme della fede”.

Ed ecco ciò che è sorprendente nel pensiero di p. Olegario. Prima di tutto il tono e lo stile dell'annuncio del Vangelo non deve essere apologetico (l'apologetica non fa altro che aprire la strada, raggiunge la soglia senza varcarla), né dogmatico (l'esposizione del dogma presuppone che il passo sia già compiuto), né moraleggiante (la moralità deve apparire come un'esigenza normale dell'adesione personale della fede, non come una provocazione), ma semplicemente evangelica. Il missionario, sull'esempio dei primi predicatori del Vangelo, deve dare il primato assoluto nella sua predicazione alla persona di Cristo, evitando un atteggiamento eccessivamente intellettuale o razionalista, apologetico o moralizzatore. Bisogna dare la precedenza alla Parola sugli altri mezzi di diffusione e, soprattutto sull'organizzazione, sulla tecnica della propaganda. Inoltre, l’annuncio deve essere gioioso e deve avere un carattere universale e il messaggio avvolto nel profumo e nella chiarezza della testimonianza. L’annuncio deve essere sostenuto dalla testimonianza di una vita interamente cristiana.

Se la Chiesa ha il dovere di annunciare il Vangelo, questo dovere è qualcosa di più di un'imposizione estrinseca: è un impulso e un mandato che viene soprattutto dal suo interno, e le è naturale, qualcosa come un istinto di diffusione o di maternità, che Cristo deposita in Lei con il suo Spirito. Questo impulso, che ricade sulla Chiesa, ricade su ciascuno e ciascuno dei suoi membri. Il frutto della missione sarà proporzionale al grado di unione con Cristo.

Il missionario – spiega ancora p. Olegario - non è esperto di marketing è un uomo che vive intensamente la sua unione con Cristo. Il missionario non è chiamato ad essere propagandista, né conquistatore, né semplice organizzatore, e nemmeno ad essere “eroe” di Cristo. Il missionario è chiamato ad abbracciare eroicamente la Croce di Cristo. Amore fino in fondo, questa è la tua missione. Amare, dunque, in modo eroico. Ma questo eroismo non significa nascondere la propria povertà o non riconoscerla. Non siamo superuomini, non abbiamo poteri speciali o magici. Siamo semplicemente uomini che hanno la grazia di Dio. Siamo strumenti della grazia di Dio. Senza dimenticare ciò che disse una volta Unamuno: “Il più terribile nemico dell’eroismo è la vergogna di apparire poveri”.

martedì 22 agosto 2023

Un Congresso alla vigilia della proclamazione di Maria Regina

 


Pochi giorni prima della proclamazione di Maria Regina si tenne a Roma il Congresso Internazionale di Mariologia, dal 24 al 30 ottobre 1954. Vi parteciparono uno stuolo di Oblati. Sette di loro tennero delle relazioni nell’Auditorium di via della Conciliazione e in altre prestigiose sedi accademiche. Nei pomeriggi liberi del 26 e 27 si tenne il Congresso Mariano Oblato. Meravigliosi anche solo i titoli: “Maria Immacolata nella vita personale dell’Oblato” (Daniel Alberts), “La nostra consacrazione d’Oblati di Maria Immacolata” (Maurice Gilbert), “Eugenio de Mazenod e la definizione del dogma dell’Immacolata concezione” (Robrecht Boudens), “La spiritualità mariana di Mons. de Mazenod” (Giuseppe Morabito), “Maria Immacolata e la vita apostolica dell’Oblato” (Irené Tourigny)… Tante foto ritraggono gli Oblati presenti…

Presentando la pubblicazione degli atti di quel Congresso oblato, p. Deschâtelets tracciò un vasto programma di studi, in parte ancora inattuato, riguardante sia il dogma in sé sia la sua presenza nella storia della Congregazione. Chiedeva, ad esempio, una “storia mariana” degli Oblati, biografie su alcune figure eminentemente mariane, ricerche approfondite sui santuari tenuti dagli Oblati, l’istituzione di un centro di studi, la pubblicazione di quaderni mariani, voleva insomma che fossimo dei veri specialisti in vita e dottrina, di Maria Immacolata.



lunedì 21 agosto 2023

Maria Regina e gli Oblati

È stato Pio XII, con l’Enciclica Ad coeli Regina dell’11 ottobre 1954 a istituire la festa liturgica di Maria Regina. Chi glielo ha suggerito? Forse tanti. Gli Oblati di sicuro! Il Superiore Generale, Léo Deschâtelets, gli aveva scritto la seguente domanda, che riprendeva quella già scritta nel 1938 dal precedente superiore generale p. Labouré:

A Sua Santità Papa Pio XII

Beatissimo Padre,

È mio gradito dovere condividere con Vostra Santità un augurio espresso dal nostro Capitolo Generale, celebrato nel mese di maggio 1953.

Con voto unanime e con grande fervore, tutti i Capitolari hanno chiesto al Superiore Generale della Congregazione di presentare a Vostra Santità una petizione per la designazione di una festa liturgica in onore della Regalità Universale della Beata Vergine Maria.

Con questa iniziativa spontanea, gli Oblati di Maria Immacolata hanno voluto manifestare la loro fedeltà a questa devozione mariana, donata loro in eredità come prezioso tesoro dal loro Fondatore, il Servo di Dio Mons. Charles Joseph Eugenio de Mazenod, Vescovo di Marsiglia.

Hanno anche voluto unire le loro voci a quelle della stragrande maggioranza dei cattolici che oggi riconoscono Maria Immacolata come Regina e Imperatrice, e che come tale la fanno conoscere alle folle nell'esercizio della loro vocazione di missionari dei poveri e delle anime più abbandonate.

Santo Padre, sono lieto di farmi interprete ufficiale di tutti i Missionari Oblati di Maria Immacolata nel supplicare Vostra Santità di esaudire la preghiera e la speranza di oltre seimilacinquecento religiosi che ardentemente desiderano che Vostra Santità proclami in questo provvidenziale Anno Mariano la Regalità Universale della Vergine e l'istituzione di una festa liturgica che ricordasse ogni anno questo glorioso privilegio della Regina del cielo e della terra.

Léo Deschâtelets, O.M.I., Superiore Generale

domenica 20 agosto 2023

Preghiera come lotta


Ancora sulla donna siro-fenicia. Ha fatto come Pietro, che interrompendo il discepolato – l’andare dietro a Gesù – gli si pone davanti. Ma quale grande differenza tra i due. Pietro si para davanti al Signore per farsi suo maestro e indicargli la strada! E Gesù lo rimanda dietro – “vade retro” – al suo posto di discepolo: la strada la segna lui.

La donna invece gli si pone davanti e, come le donne della risurrezione, si prostra ai suoi piedi, per adorarlo. È sì davanti a lui, ma non come maestra, sempre come discepola, implorante. Un grido di aiuto che è riconoscimento di Gesù come Signore, colui a cui tutto è possibile. Più insiste, più non si dà per vinta, più lo contraddice e più dimostra di credere in lui. La preghiera è sempre una lotta con colui che sappiamo vincerà.

sabato 19 agosto 2023

La donna che ha aperto la porta a tutti

“Pietà di me, Signore”. Un grido di aiuto che si leva più volte lungo il Vangelo. Il grido dei poveri, dei lebbrosi, dei ciechi… “Signore, aiutami!”, il grido di padri e di madri disperati per i loro figli in pericolo. Chi sta bene, chi ha tutto, chi vive al sicuro non ha bisogno di Dio, non grida aiuto. Non lo cerca, non lo trova. Non sa cosa si perde. Com’è povero il ricco!

Non è mai una ricerca disinteressata quella che muove uomini e donne del Vangelo ad andare incontro a Gesù. Sono sempre mossi da una necessità, da un dolore. Egli è l’ultima (e la prima!) speranza certa. Lo seguono, lo implorano. Inutilmente gli altri cercano di farli tacere perché il Maestro non sia importunato, oppure, come nel racconto di oggi della donna siro-fenicia, lo supplicano di esaudire la richiesta perché la petulanza del misero a lungo stanca.

Non cercano Gesù, ma la salute, la guarigione, la salvezza di un figlio. Eppure vanno da Gesù perché sanno, almeno per sentito dire, che è il Signore, il Figlio di David. Intuiscono la sua grandezza e la sua potenza anche se la loro conoscenza è ancora vaga e incerta. Questa donna poi non è neppure del suo popolo, è una straniera, una pagana. Come può sapere chi egli è veramente? Gesù stesso la allontana perché la sua prima missione è verso Israele. Ma lei non si scoraggia, insiste nella sua ricerca, nella sua richiesta: “aiutami”. Fino a quando smette di seguirlo, non accontentandosi più di gridare da lontano: coraggiosamente non soltanto si fa vicina, ma si pone davanti a lui e lo obbliga a fermarsi per parlare con lei.

Lei, la straniera, la pagana, compie il gesto più alto: lo adora (questo il senso profondo del verbo “prostrarsi”, lo stesso usato, la prima volta, per altri stranieri, i magi d’Oriente, anch’essi stranieri e pagani). Una ricerca, quella della donna, che approda all’adorazione, che si trasforma nel gesto più gratuito e disinteressato. Cercava qualcosa per sé, ma poi giunge all’oblio di sé e approda al riconoscimento di Gesù. Rimane la fede, lo sguardo puro e semplice che riconosce il mistero da cui si lascia avvolgere e penetrare, quasi a dire: “Tu solo sei, tu solo vali. Te solo voglio, te solo amo, te solo conosco come il tutto della mia vita, l’unico che mi può dare il perdono, la salvezza, la vita”. È la fede che salva.

Con questo suo incontro la donna ha aperto la porta a tutti, giudei e pagani, vicini e lontani. D’ora in poi ognuno può sedere alla mensa eucaristica e nutrirsi dell’unico pane.

venerdì 18 agosto 2023

Nella grotta di Betlemme


Sono agli ultimi ritocchi del libro sul Natale. Praticamente mi trovo nella grotta di Betlemme. Capisco San Girolamo che scelse di abitare in una grotta accanto a quella dove era nato Gesù. Da un piccolo foro si vede proprio la grotta della natività, come ho fotografato nel mio ultimo viaggio in Terra Santa.

Dovremmo avere sempre un angolino da cui guardare questo mistero di Dio infinito che nasce bambino.

giovedì 17 agosto 2023

Maestro, dove abiti?

Si sentiva prossimo alla fine. Si metteva per tempo seduto davanti alla cella, per gustare con calma il lento tramonto del sole, sempre luminoso, sempre gioioso, quasi una anticipazione del proprio tramonto. C’erano stati tanti sbagli nel passato, ma apa Pafnunzio non li teneva più in considerazione, assorbiti dalla misericordia di Dio. Aveva compiuto anche tante opere buone grazie all’amore del Padre che, radice sempre viva e feconda, lo faceva fruttificare. Erano un dono di Dio. Di suo in mano non aveva niente. Avanti negli anni avrebbe dovuto essere avanti anche sulla via della santità, ma forse aveva perduto il sentiero.

Davanti al sole del tramonto gli venne allora un’invocazione: “Maestro, dove abiti?”. Era una domanda che andava bene per chi inizia il cammino, adatta ad Andrea e al suo amico non ancora discepoli. La domanda degli inizi. Era la domanda giusta di apa Pafunzio, che si accorgeva di non sapere niente del Maestro, o troppo poco. Era la domanda più indovinata in quel momento, per cominciare di nuovo, dall’inizio.

“Maestro, dove abiti?”. Era una domanda un po’ impacciata, come dovette essere quella dei due lungo il fiume Giordano.

“Vieni a vedere”. La risposta, prima che nelle parole, stava in quello sguardo luminoso, pieno di festa. Sembrava gli dessi gioia, con quella domanda, quasi la stesse aspettando, desideroso lui di mostrarti più che tu di conoscerlo. “Vieni a vedere”. E lo porta con sé…

mercoledì 16 agosto 2023

Un saluto al Portogallo


 

Portogallo 2023.
Che giornate belle!
Che Paese bello.
Che gente bella…
Vorrebbe la voglia di fermarsi anche dopo il calar del sole…
Ma occorre ripartire. Sempre avanti, verso nuove avventure.




martedì 15 agosto 2023

Sull’oceano



Il nostro incontro con i vescovi è terminato vedendo esauditi due miei desideri: celebrare insieme la messa nel santuario di Nostra Signora di Sameiro e l’oceano.

Oggi, festa dell’Assunta, abbiamo dunque celebrato nella basilica, mentre nella cripta giungevano numerosi i pellegrini, tanti con i costumi tradizionali.



Nel pomeriggio siamo scesi a Apulia e Esposente, passando per uno dei soliti piccoli meravigliosi santuari su una collina. Il sindaco, che aveva messo a disposizione due pullman, ci ha accolti con un grande buffet… ho così visto l’oceano e camminato sulla riva e così posso dare atto al Papa delle “spiagge dorate affacciate sulla sconfinata bellezza dell’oceano che costeggia il Portogallo”.



La mattina ultima meditazione. Accenno soltanto ai diversi punti che ho toccato:

Il giorno di Pentecoste, lo Spirito, dopo aver fatto irruzione nel cenacolo infiammando gli apostoli con lingue di fuoco, li spinge fuori, in mezzo alla folla. Pietro con gli Undici si alza in piedi e a voce alta proclama: «Fate attenzione alle mie parole» (Atti 2, 14). Narra di Gesù di Nazaret, dei miracoli, prodigi e segni operati tra il popolo, della sua crocifissione e morte, della sua risurrezione. Dopo averlo ascoltato, «coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone» (2, 41). La Chiesa nasce dalla proclamazione della Parola; è davvero Ek-klesia, assemblea di popolo convocata tramite l’annuncio della Parola, come dice il termine greco.

Il parlare presuppone il vivere. E questo ci porta verso il “mandato missionario” come è espresso nel Vangelo di Giovanni, individuato nelle parole dell’ultima cena: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (13, 35) e in quelle della grande preghiera al Padre: «Siano in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. (...) Siano perfetti nell’unità, affinché il mondo riconosca che tu mi hai mandato» (17, 21.23). Qui l’accento è posto sulla testimonianza. Non un credo astratto, ma il frutto di un rapporto personale con Gesù. L’annuncio cristiano dovrebbe essere così, sempre frutto di esperienza. Non si può evangelizzare, se prima non si sperimenta il Vangelo, se non ci si lascia evangelizzare.

Testimoniare, annunciare, entrare in rapporto con tutti e con ognuno. Per arrivare dove? Qual è l’obiettivo dell’evangelizzazione? Lo stesso che aveva Gesù quando il Padre lo ha mandato nel mondo. È venuto nel mondo perché Dio ama il mondo e perché il mondo abbia la vita (cf. Gv 3, 16-18). Gesù trasmette alla Chiesa la sua stessa missione, con lo stesso obiettivo: fare di tutti una sola famiglia, creare la fraternità umana, portare all’unità.

Naturalmente non ho potuto terminare senza lo sguardo su Maria modello di discepola e di apostola che come nessuno ha dato Gesù al mondo.


lunedì 14 agosto 2023

Dio dà spettacolo ogni sera

«Purtroppo, abbiamo perso il gusto di sostare, di stare calmi, di fissare i colori di un’alba o di un tramonto, di contemplare e ammirare. Lo scrittore inglese Chesterton era lapidario: “Il mondo non perirà per mancanza di meraviglie ma per la perdita della meraviglia”».

Così scrive Ravasi nel “Breviario” che ha scritto ieri sul Sole 24 Ore. Ho avuto la smentita ieri sera. Seduti sulle gradinate del santuario di Sameiro decine e decine di persone aspettano il tramonto. Altre sono sedute lungo la scalinata che scenda per un centinaio di metri verso la città. Mi siedo accanto a loro per contemplare la luce del sole che colora i monumenti di totalità calde. Il cielo s’accende di mille tonalità. Appena il sole scompare esplode un applauso collettivo: Che artista il nostro Artista! Tutti presi dalla meraviglia della sua grande opera, che rinnova in maniera nuova ogni sera.



Ed ecco, ancora una volta, l’inizio della meditazione che ho dato oggi ai vescovi:

Il giorno di Pentecoste, lo Spirito, dopo aver fatto irruzione nel cenacolo infiammando gli apostoli con lingue di fuoco, li spinge fuori, in mezzo alla folla. Pietro con gli Undici si alza in piedi e a voce alta proclama: «Fate attenzione alle mie parole» (Atti 2, 14). Narra di Gesù di Nazaret, dei miracoli, prodigi e segni operati tra il popolo, della sua crocifissione e morte, della sua risurrezione. Dopo averlo ascoltato, «coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone» (2, 41). La Chiesa nasce dalla proclamazione della Parola; è davvero Ek-klesia, assemblea di popolo convocata tramite l’annuncio della Parola, come dice il termine greco.

Il Concilio ha raccolto le significative parole di sant’Agostino sull’attività missionaria dei Dodici: «Predicarono la parola di verità e generarono le Chiese».

È l’adempimento del “mandato missionario” trasmesso dal Vangelo di Matteo: «Andate dunque e fate miei discepoli tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (28, 19-20).

Il parlare presuppone il vivere. E questo ci porta verso il “mandato missionario” come è espresso nel Vangelo di Giovanni, individuato nelle parole dell’ultima cena: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (13, 35) e in quelle della grande preghiera al Padre: «Siano in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. (…) Siano perfetti nell’unità, affinché il mondo riconosca che tu mi hai mandato» (17, 21.23). Qui l’accento è posto sulla testimonianza.

Ne è rivelatrice, ancora una volta, la prima comunità cristiana di Gerusalemme, che, assieme alla libertà e al coraggio dell’annuncio, possedeva una grande forza d’attrazione e di testimonianza. Il vivere la Parola rendeva i primi credenti annunciatori autentici e credibili: la parola poggia sulla vita e la vita si esprime nella parola.

Ugualmente per la comunità di Giovanni. L’annuncio è condivisione dell’esperienza vissuta con il Signore: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1, 1-3).

Non un credo astratto, ma il frutto di un rapporto personale con Gesù. L’annuncio cristiano dovrebbe essere così, sempre frutto di esperienza. Come proclamare un Dio che è amore se non ci crediamo profondamente, se non l’abbiamo sentito presente nella nostra vita, se non ne abbiamo fatto l’esperienza? Non si può annunciare una fede imparata soltanto al catechismo o nello studio della teologia, senza che sia entrata nella vita: “Ciò che contempliamo… noi lo annunciamo”. Senza un rapporto personale con Gesù non si può parlare efficacemente di lui. O meglio, se ne può parlare, ma non avviene un’autentica testimonianza di fede. L’annuncio è la comunicazione di un’esperienza capace di coinvolgere e suscitare una medesima esperienza.

Non si può evangelizzare, se prima non si sperimenta il Vangelo, se non ci si lascia evangelizzare.





domenica 13 agosto 2023

Fuoco sono venuto a portare

Il primo grande annuncio fu quello di Maria Maddalena. La mattina di Pasqua corse dai discepoli gridando: «Ho visto il Signore!» (Gv 20, 18). L’aveva incontrato nel giardino, risorto. Lui l’aveva chiamata per nome, lei gli aveva risposto e lo aveva abbracciato… Non poteva tenere per sé questa straordinaria notizia, doveva condividere ciò che era accaduto, la sua grande esperienza. È l’“apostola degli apostoli”, come la chiama san Tommaso d’Aquino.

Anche gli apostoli, la sera di Pasqua, videro Gesù entrare nel cenacolo: si fermò in mezzo a loro e mostrò le mani e il fianco con i segni indelebili del suo infinito amore. Anche loro non potettero tenere per sé quanto avevano visto e lo raccontarono subito a Tommaso, in quel momento assente: «Abbiamo visto il Signore» (Gv 20, 25). Più tardi, davanti al tribunale del Sinedrio, ripeteranno di nuovo: «Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (Atti 4, 20).

Giovanni farà lo stesso: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita (…), noi lo annunciamo anche a voi» (1 Gv 1, 1.3). Lo stesso farà Paolo: «vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto» (cf. 1 Cor 15, 3).

Di bocca in bocca, di generazione in generazione, l’annuncio del Vangelo, la “buona notizia”, si diffonde rapidamente, da Gerusalemme ad Antiochia, a Roma, in Spagna, in Gallia, in India, travalica gli oceani e i secoli, e giunge fino a noi oggi. Gesù l’aveva predetto: «Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo» (Mt 24, 14), e poco dopo Paolo poteva costatarlo: «Avete già udito l’annuncio dalla parola di verità del Vangelo che è giunto a voi» (Col 1, 5).

L’esperienza di Maria Maddalena, degli apostoli, di Paolo continua, ininterrottamente. Il “deposito” della fede, l’eredità lasciata da Gesù, è passata di mano in mano. Oggi l’abbiamo nelle nostre mani e dovremmo trasmetterla a nostra volta alle nuove generazioni.

Così questa mattina ho iniziato la meditazione indirizzata ai vescovi. Io parlo, parlo, ma loro raccontano fatti, esperienze di vita straordinarie, e vanno avanti per tutto il giorno!

Intanto mi godo la gente che sempre più numerosa si riversa nel santuario della Madonna di Sameiro e in quello vicino del Buon Gesù. È un incanto, tra turismo e devozione. L’importante che vengano qui. La mattina li vedo arrivare e la sera partire… Le infrastrutture sono curate nei minimi particolare, dalla viabilità ai parcheggi, agli alberghi, i punti di ristoro, i giardini, i giochi per i bambini… e la pulizia, meticolosa… Il bello va protetto e curato.

I boschi attorno sono densissimi e ricchi di vegetazione, acacie e eucalipti, abeti e querce da sughero… la brezza costante. Anche nelle ore più calde il clima è piacevole.

Mi tornano alla mente le prime parole che Papa Francesco ha pronunciato venendo in Portogallo: “Mi sono immerso nella bellezza del vostro Paese, terra di passaggio tra il passato e il futuro, luogo di antiche tradizioni e di grandi cambiamenti, impreziosito da valli rigogliose e da spiagge dorate affacciate sulla sconfinata bellezza dell’oceano, che costeggia il Portogallo” (ma le spiagge non le ho viste…).