In questi giorni ho letto L’amico armeno, un romanzo
di Andreï Makine, ambientato nella Siberia agli inizi degli anni Novanta del
secolo scorso. A seguito della repressione degli Armeni, l’URSS deporta in
Siberia un gruppo di ribelli, a 5000 chilometri di distanza dal Caucaso. I
parenti dei carcerati si trasferiscono vicino alla prigione e creano un piccolo
villaggio armeno per stare loro vicino e per assisterli quando sarà il momento del processo.
È un atto di straordinaria solidarietà e umanità: non abbandonare chi è imprigionato,
chi deve affrontare un processo.
Inizia la Settimana Santa. Gesù l’aveva predetto: «Il
Figlio dell’uomo verrà consegnato ai pagani, verrà deriso e insultato, lo
copriranno di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno» (Lc 18,
32-33). Sapeva a quanto andava incontro. Aveva previsto anche che il suo gregge
si sarebbe dispeso (Mt 26, 31). Ma forse non aveva immaginato di restare così
solo.
Nell’orto degli ulivi prova tristezza, angoscia, una
paura da morire e implora i tre discepoli che più gli erano vicini di non
lasciarlo solo: “Vegliate con me” (Mt 26, 36). Pietro, Giacomo, Giovanni se li era
portati con sé sul monte della trasfigurazione e nella casa di Giairo dove aveva
risuscitato la bambina. Erano i discepoli più cari. E lo lasciano solo. Quando vengono
per arrestarlo tutti scappano. Al processo Pietro nega di conoscerlo e da quel
momento non c’è più nessuno accanto a Gesù. Affronta da solo le accuse, la
flagellazione, il processo, la condanna… Non c’è nessuno con lui. Lo stesso sulla croce, quando
è circondato soltanto da chi lo insulta, lo deride… Giovanni dice che c’era lui e la
madre, ma Matteo dice che le donne “osservavano da lontano” (27,
55). Solo come un cane. Senza nessuno che lo sostiene, gli sta vicino, gli
mostra un briciolo di comprensione, di affetto.
È questo che lo ha fatto soffrire di più, più della flagellazione,
più della corona di spine, delle umiliazioni, dei chiodi: sentirsi solo, lasciato
solo da tutti, soprattutto da quelli che aveva amato e per i quali moriva. Poi
ci si mette anche l’abbandono del Padre: è il culmine, fino al grande grido
inarticolato con il quale muore (Mt 27, 50; Pc 15, 37).
Quanti sono soli davanti al dolore, alla malattia, alle difficoltà della vita, alle disgrazie. Non hanno con chi parlare, con chi piangere, con chi consigliarsi; senza aiuto, senza comprensione, senza sostegno… È la tragedia nella tragedia.
Gesù ha vissuto la più grande solitudine perché ha raggiunto e fatto propria ogni solitudine. Ha vissuto la solitudine perché non fossimo più soli. Noi le sue braccia i suoi cuori per colmare ogni solitudine.
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