giovedì 31 gennaio 2013

Missionario del Chaco paraguaiano, l’Inferno verde



5 anni fa, quando il professor Andreas Zehnsdorf andò a pranzo nel ristorante dal nome buffo "Una rana zoppa", si mise a chiacchierare con la proprietaria che gli raccontò di suo fratello che era stato missionario nel Chaco paraguaiano, che allora si chiamava "Inferno Verde", per la sua foresta piena di pericoli. Gli mostrò le sue lettere settimanali, in cui il missionario giovane ed entusiasta raccontava tutto quello che viveva in quel mondo lontano e strano. Non mancavano le foto. Infatti quel missionario, P. Manfredo Jünemann, era un fotografo e regista di talento. Il ricercatore rimase affascinato e benché si dichiari agnostico, decide di scrivere un libro su quel missionario. Ha così raccolto materiale in Paraguay e in Germania e ha fatto un lungo viaggio nel Chaco, dove poteva ancora trovare ricordi e testimoni contemporanei del missionario che aveva iniziato la sua avventura nel 1960. Un attacco di cuore lo aveva stroncato a solo 48 anni. Quando sarà tradotto ve ne racconterò la vita. Per il momento mi basta guardare il suo volto e sapere che in Cielo continua a seguire la sua gente e tutti noi missionari.

mercoledì 30 gennaio 2013

Eccoci infiammati d'amore




Aix, 30 gennaio 1816
Il nostro p. Augusto Icard oggi ci ha raccontato della missione che ha predicato pochi giorni fa a Pignans assieme a p. Pier Nolasco Mie. Tutte e due hanno passato quindici giorni con la gente a predicare il Vangelo, a riconciliare i peccatori, a rendere ogni persona consapevole d’essere amata da Dio, a ricordare che siamo qua sulla terra in vista del Cielo. Dopo anni di abbandono le nostre campagne hanno perduto il senso di Dio e spesso si vive abbrutiti nel duro lavoro quotidiano, senza mai alzare gli occhi al Cielo.
È pieno di zelo il nostro p. Augusto. L’ho conosciuto quando era in seminario dove andavo a confessare i seminaristi. È ordinato prete da appena due anni e fino ad oggi era vice parroco nella parrocchia di Lambesc, vicino ad Aix. È lui che, quando ha saputo del mio progetto di formare una comunità di missionari si è offerto per primo e mi ha indicato gli altri tre.
Ed ora eccoci qua, uniti dal desiderio ardente della nostra perfezione, infiammati d'amore per Nostro Signore Gesù Cristo e la sua Chiesa, con lo scopo stesso di Gesù, che venne in terra per la salvezza delle anime.
(Dal diario di Sant’Eugenio de Mazenod, lf)

martedì 29 gennaio 2013

Contemplazione o azione? falso dilemma

L’ala dell’antico Carmelo
dove aveva preso posto la prima comunità.
Le due stanze degli inizi si aprono
sulla finestra grande al secondo piano

Aix, 19 gennaio 1816
Vogliamo essere una comunità di missionari e ci siamo ritrovati in un Carmelo! Sembra una contraddizione.
Dal 1628 fino al 1792 in questa casa hanno vissuto in clausura le monache carmelitane, tutte intente alla preghiera e alla contemplazione. Quando la Rivoluzione francese cacciò le ultime 18 monache il monastero è passato di mano in mano. Da pochi mesi ne ho acquistato tre ali per dar vita alla nostra comunità, anche se rimane occupato dal pensionato per le giovani diretto dalla signora Gontier. Per adesso ci contentiamo delle nostre due stanze.
Noi missionari nasciamo in un monastero di vita contemplativa. Che sia un segno di come dovrà essere la nostra vita missionaria? A pensarci bene questa distinzione tra vita contemplativa e vita attiva che si è instaurata nella Chiesa ha poca consistenza. Come potremo missionari se non saremo contemplativi? Missionari vuol dire annunciare ciò Dio, e come potremo annunciarlo se prima non l’abbiamo conosciuto, non lo abbiamo contemplato? E stando in mezzo alla gente, in quella che si chiama “vita attiva”, come potremo non contemplare la presenza e l’azione di Dio tra quanti incontriamo? Annunceremo quel Dio che abbiamo visto e annunciandolo lo vedremo in mezzo alle folle e lo ameremo ancora di più, in un progressivo processo virtuoso.
(Dal diario di Sant’Eugenio de Mazenod, lf)

lunedì 28 gennaio 2013

Con gli occhi del cuore

La prima pagina della “Supplica”
indirizzata ai Vicari generali di Aix

Aix, 28 gennaio 1816
È una giornata fredda e il vento gelido entra dagli infissi che non chiudono bene. Intabarrati nei nostri mantelli ci siamo seduti attorno al camino e abbiamo riletto le prime righe della lettera che abbiamo indirizzato ai Vicari generali della diocesi, non avendo ancora il vescovo:
«Rev. Vicari Capitolari, i sacerdoti qui sottoscritti, vivamente colpiti dalla pietosa situazione dei piccoli centri e dei villaggi della Provenza che hanno quasi completamente perso la fede;
avendo constatato per esperienza che l’indurimento dello spirito e l’indifferenza di questa gente rendono insufficienti, e anzi inutili, i soccorsi ordinari che la vostra sollecitudine per la loro salvezza fornisce loro;
essendo giunti alla convinzione che le missioni sarebbero il solo mezzo con il quale si potrebbe arrivare a far uscire dal loro stato di abbrutimento questa gente abbandonata;
desiderando, nello stesso tempo, rispondere alla vocazione che li chiama a consacrarsi a questo difficile ministero;
e volendo farlo in maniera che risulti utile per loro e vantaggioso per la gente che si propongono di evangelizzare;
Le firme dei cinque che si riunirono
Il 25 gennaio 1816
hanno l’onore di domandare l’autorizzazione di riunirsi ad Aix nella vecchia casa delle Carmelitane, che uno di loro ha acquistato, per vivervi in comunità sotto una regola di cui espongono i punti principali”.
È un autentico proclama, un manifesto frutto della nostra esperienza. Forse è meglio dire di quanto abbiamo visto attorno a noi, perché di esperienza ne abbiamo ancora poca. Ma basta un po’ di cuore e uno sguardo limpido per accorgersi della situazione penosa della nostra gente. Siamo giovani ma abbiamo già il cuore pieno di Dio e vorremmo che il suo amore traboccasse su tutti. (Dal diario di Sant’Eugenio de Mazenod, lf)

domenica 27 gennaio 2013

Veloce o lontano, da solo o insieme

La stanza di Sant’Eugenio, come si presenta oggi.
I quattro scalini e la porta immettono nella stanza
dove alloggiavano i suoi primi due compagni, Tempier e Icard.

Aix, 27 gennaio 1816
“Se vuoi andare veloce, vai da solo; se vuoi andare lontano, vai insieme ad altri”.
Questo proverbio africano fa al caso mio.
Nei tre anni seguiti alla mia ordinazione sacerdotale sono andato avanti veloce. Ho dato vita a tante iniziative, ho lavorato sodo: con i carcerati, con i giovani, con i seminaristi, con gli artigiani, la servitù e la gente semplice della città… Ma tante volte a sera mi sono trovato stanco e vuoto. Non sarei andato tanto lontano, da solo.
Ora invece Dio mi dato dei compagni con i quali condividere il cammino. Sono sicuro che insieme andremo lontano…
Scrivo queste note seduto sul primo dei quattro gradini che dalla mia stanza portano a quella dove già riposano Tempier e Icar. La mia stanza… è soltanto un corridoio che porta nella stanza grande che serve da cucina, sala da pranzo, sala di comunità, dormitorio. La tavola sono due assi poggiate su due vecchi barili. Scrivo alla tenue luce del lume che, sulla porta, illumina le due stanze. Come inizi non è poi un gran lusso, ma anche al Figlio di Dio, quando iniziò la sua avventura sulla terra, bastò una stalla e una mangiatoia. La nostra povertà è la garanzia che siamo sulla strada buona. Andremo lontano… siamo insieme.
(Dal diario di Sant’Eugenio de Mazenod, lf)
Mi giunge intanto questo messaggio: L'altro giorno sono andata a fare compagnia alla mia nipotina che aveva l'influenza. Naturalmente voleva una storia. Mi è venuto in mente di raccontarle la storia di sant'Eugenio, dalla sua infanzia fino al primo giorno della comunità, le ho detto che era la storia di uno della nostra famiglia,  che si è fatto santo e che dal cielo ci protegge. Lei  ascoltava incantata.

sabato 26 gennaio 2013

Nasce la prima comunità oblata


Aix, 26 gennaio 1816
È il nostro primo giorno di vita in comunità. Siamo appena in tre. Come me c’è Francesco di Paola Enrico Tempier, giovane sacerdote di 28 anni, e Icard di 26 anni. Li ho conosciuti entrambi quando erano ancora nel seminario di Aix. Ieri erano con noi anche Mie e Deblieu, poi rientrati nelle loro case. Abbiamo rivisto e firmato il testo con il quale abbiamo domandato ai Vicari generali della diocesi di vivere insieme per dedicarci alla predicazione delle missioni parrocchiali. Ci siamo dati appuntamento per i primi di febbraio, quando faremo il nostro ritiro.
Eccoci dunque, dopo tanta attesa, a vivere insieme. Mi sembra un sogno! Per la prima volta ho preparato il pranzo, cuocendo la zuppa di verdure sul fuoco del cammino. Il fumo ha riempito la stanza. Non sono pratico di queste cose. Fino ad ora ho sempre trovato la tavola apparecchiata dalla mamma o dalla nonna o dal mio fedele Mauro. Ma oggi comincia una vita nuova. Ci siamo messi a ridere, contenti delle nostre prime maldestre esperienze culinarie. È una cosa seria quello a cui stiamo dando vita… e noi ridiamo, contenti come pasque.
Nel fondo Boisgelin dell’Archivio generale OMI a Roma ho trovato il diario del 1816 di sant’Eugenio de Mazenod. Con questo primo testo ne inizio la trascrizione. (Letterarum fictio)
Ieri, anniversario dell’inizio dei Missionari Oblati, è tornata al suo posto, nella cappella della casa generalizia, la statua dell’Immacolata appena restaurata.

venerdì 25 gennaio 2013

Visione

La quarta parola che mi ha ispirato questi giorni è “avere una visione”.
Spesso le nostre azioni sono così piccole e le nostre giornate appaiono così insignificanti che hai l’impressione di inutilità: a che serve la mia vita?
Se si ha un ideale, un progetto, un orizzonte, anche il minimo gesto trova la sua giusta collocazione e il suo significato.
Viviamo per la fratellanza universale, per l’unità e tutto può essere un contributo per la sua realizzazione: tutto vale, come una minuscola tessera in un grande mosaico.

Queste quattro parole mi sono state suggerite all’incontro di 150 religiosi dall’Europa, Libano, Perù, Brasile... riuniti a Castelgandolfo proprio per una visione, un ideale, un progetto, un orizzonte. Bello!

Belli anche i commenti di una non meglio identificata Pierangela:
Fiducia: Questi pensieri sono molto incoraggianti per me che da circa due anni sono vedova. Ora ho esperimentato che Dio non mi abbandona nella desolazione. Attraverso di te mi giunge Dio Sempre
Insieme: Per accettare la collaborazione con i fratelli occorre essere umili e riconoscersi bisognosi di aiuto. Non è facile rompere il guscio che ci imprigiona! E' una grazia che possiamo chiedere insieme!

giovedì 24 gennaio 2013

Un solo amore



La terza parola è “un solo amore”. Non c’è nessun legame tra queste parole, ma mi sono state donate così, una dopo l’altra, e ognuna m’è di luce.
Un solo amore, quello di Dio, evidente.
O meglio quello del Dio incarnato, Gesù.
Meglio ancora, quello di Gesù nel momento più alto del suo amore,
quando assume e fa suo ogni nostro sbaglio, ogni nostro dolore.
Un solo amore, che dà occhi per riconoscerlo nel dolore dell’altro,
nel nostro dolore. Riconoscerlo e accoglierlo come lui ci ha accolto.

mercoledì 23 gennaio 2013

Insieme


È la seconda parola che mi è stata rivolta in questi giorni: insieme
A Roma vi sono 600.000 persone che vivono da sole e molte di essere… sono sole.
Vi sono anche persone che pur vivendo assieme ad altri si sentono sole.
Come si fa a vivere soli? Che tristezza!
Siamo fatti per vivere insieme, perché creati a immagine di un Dio che è Padre, Figlio, Spirito Santo in rapporto d’amore.
Abbiamo bisogno l’uno dell’altro e il lavoro dell’uno non può essere fatto senza il lavoro dell’altro. È come quando si costruisce una casa: il muratore non può lavorare senza tenere conto del falegname e l’elettricista senza l’idraulico e l’imbianchino senza il piastrellista…
La nostra casa va costruita insieme.

martedì 22 gennaio 2013

Fiducia


Quattro parole mi hanno particolarmente colpito oggi.
La prima è fiducia.
Fiducia negli altri, unica alternativa al conflitto.
Soprattutto fiducia in Dio, l’unico che può porre fine al conflitto, anche alle guerre assurde che si continuano a combattere.
Fiducia in lui che può risolvere i piccoli conflitti di ogni giorno, come le situazioni più disperate.
Fiducia in Dio, nella sua azione nei miei riguardi: soltanto lui può farmi giungere là dove io non farei mai capace di arrivare.
Fiducia nella sua vicinanza costante, nel suo aiuto sicuro.
Fiducia di non essere mai soli nel cammino della vita, nell’affrontare prove e difficoltà.
Fiducia in Padre che conta anche i nostri capelli e che non rifiuta mai il pane quotidiano a chi glielo chiede con fiducia.

lunedì 21 gennaio 2013

Agnese: dichiarazione d'amore




Ti ho tanto cercato,
e ora contemplo il tuo volto;
tanto sperato, e ora sei mio;
in terra ti ho amato senza misura
ora sono tua per sempre.

Sono le parole che la liturgia mette sulla bocca di santa Agnese e che tutti vorremmo ripetere al momento della nostra partenza.
Nel giorno della sua festa sono stato a trovarla in piazza Navona a Roma, nella chiesa sorta sul suo martirio. Questa la statua della santa che esce indenne dalle fiamme, prima della decapitazione.
http://fabiociardi.blogspot.it/2012/01/la-grande-costantina-e-la-piccola.html

domenica 20 gennaio 2013

Tre miracoli per Cana di Galilea




Sono stato a Cana di Galilea tre volte e tre mi sono parse le espressioni di quel miracolo.
L’acqua si cambiò in vino. Un miracolo.
Era soltanto il segno di un miracolo ben più grande, che si compirà a Gerusalemme, in quella sala al pieno superiore: il vino si cambia nel sangue di Cristo.
Era la premessa di un miracolo ancora più grande, che può compiersi ogni giorno, in ogni parte del mondo: la nostra umanità si trasforma in divinità.

sabato 19 gennaio 2013

Africa e Madagascar

Per indicare questo continente si dice sempre “Africa e Madagascar”. I malgasci ci tengono a distinguersi dal resto dell’Africa, un po’ come gli inglesi dal resto dell’Europa. In effetti si tratta di due mondi diversi. Lo si vede già da piccoli segni che saltano subito all’occhio. Qui non vi sono gli abiti colorati e le stoffe stampate dell’Africa, così come non vi sono i tam tam (forse sono al nord). È tutto più sobrio. Si vede la differenza soprattutto nei tratti somatici e in quelli culturali, più spostati verso l’Asia. Il succedersi delle colonizzazioni è significativo: prima gli indonesiani, poi i bantu, gli indiani, i malesi, gli arabi... Ultimi sono arrivati gli europei che conoscevano il nome dell’isola misteriosa dal Milione di Marco Polo, il primo a nominare il Madagascar. Ognuno ha portato un suo tratto culturale, una tecnica lavorativa, una lingua… Il popolo malgascio si è formato in una lunga e profonda mescolanza di costumi e di etnie.
Oggi il Madagascar è uno Paesi più poveri al mondo. Lo stipendio medio è dai 40 ai 60 euro al mese. Dal tempo dell’indipendenza (1960) la deforestazione è arrivata all’80% (noi europei, con gli Stati Uniti e la Cina, ne godiamo i frutti). Diventerà come Haiti? Mi raccontano della mancanza di lavoro, divisione etniche, monopolio di attività economiche, inflazione, corruzione, e conseguentemente recrudescenza del banditismo, insicurezza, rapine... Ma anche di perdita di identità culturale e sparizione dei valori ancestrale per l’appiattimento sui costumi occidentali nella corsa cieca verso la novità. Tra i giovani cresce la dipendenza dall’alcool e dalla droga, così come l’analfabetismo. L’urbanizzazione spopola le campagne dove il lavoro si fa sempre più duro e insicuro e dove tuttavia rimane il 70 % della popolazione. La politica è in stallo. Dal 2010 vi è un comitato in attesa dell’elezione di un presidente della Repubblica che ancora non appare all’orizzonte. In questo vuoto ognuno cerca di profittare il più possibile.
Forse la Chiesa è ancora l’unico punto fermo e credibile, che lotta contro la povertà, per l’educazione, i diritti umani, attivando una rete capillare di formazione e di aiuti, rispondendo al bisogno di ritrovare i valori autentici di un popolo che di per sé è buono.
Gli Oblati sono una goccia in questa terra assetata: 40, metà polacchi, metà malgasci, con 27  scolastici, 8 novizi, 9 prenovizi, 5 frateli in formazione. Forse vale per loro il proverbio malgascio: “Il tuo amore non sia come un torrente: scende a grande fiotti, ma sparisce presto. Che sia come l’acqua nella sabbia: si pensava di non trovarne ed ecco il secchio è pieno”.

giovedì 17 gennaio 2013

Sugli altipiani malgasci

I famosi lemuri li ho visti soltanto ricamati sulla camicia che mi hanno regalato. I malgasci dicono che sono l’incarnazione degli spiriti degli antenati, ma intanto li cacciano tranquillamente e li stanno portando all’estinzione. Vivono nelle foreste tropicali lungo le coste, anche quelle in rapida via di distruzione. Ho visto invece un camaleonte e un lungo e sottile serpente innocuo che passeggiava sul prato. Anche i baobab sono lontani e li godo in foto. Tutto il mio Madagascar si esaurisce su questi favolosi altipiani centrali: ne ho quanto basta per riempirmi gli occhi.
Il viaggio di ritorno da Fianarantsoa ad Antananarivo mi è sembrato più bello di quello dell’andata, soprattutto le prime quattro ore di viaggio tra le alte montagne. Un cielo tersissimo, una luminosità limpidissima, una temperatura perfetta. Monti, rocce, foreste, risaie e coltivazioni a terrazze, villaggi di terra rossa, si amalgamano in policromia e sinfonia di forme. Sarei voluto rimanere lassù più lungo.
A tutto animare le persone che camminano di villaggio in villaggio con ceste sulla testa, quelle che lungo la strada improvvisano i microscopici punti di vendita, offrendo magari un coniglio tenuto per le orecchie, miele in bottiglie d’acqua minerale, le prugne di stagione, oppure allineando le pentole del riso per i rari piccoli autobus dei mezzi pubblici e qualche camionista. Trovi poi gli uomini e le donne che vanno o tornano dal lavoro con la falce o la vanga stretta e fine da sembrare più simile a una lancia. Sembrano tutti in perenne festa, eppure la vita appare grama. Salutano, sorridono… Alla donne basta un cappello e sembrano la regina d’Inghilterra.
I carbonai ricordano il progressivo disboscamento a cui è sottoposta la foresta, incendiata regolarmente per ottenere carbone, legna da ardere, nuove terreni per le risaie. Gli stradini, a squadre di una decina di uomini, puliscono con diligenza i bordi delle strade tagliando l’erba con i falcetti e tenendo liberi gli scarichi delle acqua, senza tuttavia poter riparare il manto stradale che è tutto un cratere; guadagnano poco meno di un euro e mezzo a giornata.
Per quattro ore soltanto villaggi sperdute o poche case allineate di tanto in tanto lungo una strada solitaria. La prima cittadina è Ambositra, dove, come ho già scritto, quasi non circolano auto perché gli abitanti se le può permettere… Se a Ambositra ci sono le strade ma non ci sono le auto, ad Antananarivo ci sono le auto ma non le strade: un ingorgo permanente, un inquinamento asfissiante. Sarei dovuto rimanere sulle montagne tra Fianarantsoa e Ambositra…
In compenso la povertà della grande città non riesce a produrre l’inquinamento luminoso a cui siamo abitati, così a notte le stelle possono splendere in tutta la loro lucentezza. Saluto la costellazione della Croce del sud.

Arriva intanto un altro commento, questa volta da un vecchio missionario in Madagascar, Leopoldo
Carissimo Fabio, spero il soggiorno a Madagascar sia di tuo gradimento. Magari ci lasci anche un pezzetto di cuore... Gli spostamenti magari saranno un po’ massacranti, le distanze sono troppo lunghe, le strade non sono proprio belle, ma adesso non ci sono cicloni. Ciò crea però disagi per la coltivazione del riso. Anni addietro, proprio a causa delle piogge e cicloni, era un'avventura arrivare a Tanà.
Bello quello che hai scritto sul blog. E' vero, la missione in foresta o sul litorale est dell'isola è dura, malaria, dissenterie, bilarziosi, vermi, e altre malattie del genere. Però sapessi come mi manca la foresta, incontrare tante persone che vivono genuinamente la loro fede, semplici e assetati di conoscere Dio. C'è più gratificazione lavorare in foresta che stare in un ufficio accudendo mille cose banali...

mercoledì 16 gennaio 2013

A Fianarantsoa con gli studenti Oblati

Iniziano la preghiera alle 5.30 del mattino, impeccabili nelle loro vesti bianche con fascia nera. Sono 27 gli Oblati malgasci negli studi di filosofia e teologia. 17 sono qui in casa a Fianarantsoa, 5 in missione per l’anno di stage, 4 studiano in Camerun e uno a Roma. Dopo colazione partono tutti in bicicletta per il centro di studi. Pedalano sodo per 15 minuti perché  la strada è in gran parte sterrata e con buoni dislivelli.
Provengono da varie parti del Paese e spesso sono giunti perché, leggendo un libretto dove si presentano le varie congregazioni religiose che operano in Madagascar, sono stati attratti dalla descrizione degli Oblati. Siamo proprio in un altro mondo! Figuriamoci se in Italia si va a cercare su un libretto la descrizioni delle diverse congregazione per vedere quella che più va a genio…
La casa è bella e grande, costruita dai polacchi. Vengono ospitati anche alcuni giovani che studiano in città. Di fronte un vasto parco di eucalipti. Nell’orto crescono ananas, meli, banani, ortaggi. Un piccolo allevamento con cinquanta galline e due maiali completa la piccola fattoria.
Mi intrattengo a lungo con gli studenti in un incontro semplice e profondo che va dritto alla nostra vocazione. Uno di loro suona per me la Valia, uno strumento musicale tipico con le corde tese lungo un grado tronco di bambù, d’un suono molto delicato… proprio come sono i malgasci.
Studiano nel seminario diocesano assieme a seminaristi di 9 diocesi e di 4 altre congregazioni religiose: salesiani, assunzionisti, lazzaristi, camilliani. In tutto 240 studenti. In altri luoghi, che non potrò visitare, vi sono 8 novizi Oblati e 9 prenovizi. Il futuro della missione è assicurato. Vale anche per gli Oblati il proverbio malgascio: “Quando si è in tanti ad attraversare il fiume non si è divorati dai caimani”. 

Giungono risonanze sul viaggio. Ecco intanto quella di Elio:
Leggo con un misto di sentimenti i tuoi reportage tra questa gente che sento vicina anche se lontana. Vicina perché appartiene alla mia stessa famiglia umana, il legame non è solo teorico, lo avverto in profondità. Da ciò commozione, tenerezza, simpatia, che tu porti loro concretamente con la tua persona e la tua vita. Grande!!! Però a questo seguono le domande e le inquietudini; perché questa ingiusta disuguaglianza? perché qui si muore di malattie per eccesso di cibo, di beni, di ozio, e lì manca tutto? perché se non ci fossi tu di queste persone nessuno saprebbe nulla, se non ci fossero i missionari, questi popoli sarebbero solo oggetto di sfruttamento? Ma noi possiamo continuare a vivere e a costruire la civiltà ignorandoli? Possiamo costruire la pace e la democrazia nei nostri paesi disattendendo il dovere di condividere, di prenderci su in qualche modo la sorte di questi brani di umanità che ci appartiene. Grazie che ci sei e che ci siete a fianco di questa gente che incontri e che saluti dicendo loro che gli vuoi bene: fallo anche per me!!!

martedì 15 gennaio 2013

Fianarantsoa, la scuola della sapienza

Fu fondata dalla regina Ranavalona prima nel 1830, come seconda capitale. In effetti, con i suoi 170 mila abitanti è la seconda città del Madagascar. Leggo che ha la ferrovia, ma è senza treni, e un aeroporto, ma senza aerei… Non ha industrie e vive dell’agricoltura e del piccolo commercio. Il traffico è molto limitato ed costituito principalmente dai taxi e dai minubus. Il trasporto minuto avviene su carrette. Gli uomini sono curvi e spingono fin con la testa carichi di mattoni, cemento, lungo strade con forti pendii. La città infatti sale e scendi su colline circondate da un ampio raggio di montagne. Siamo sui 2000 metri. Gli alberi di mele convivono con i banani e con la vite; i pini con il “rivanala”, l’albero simbolo del Madagascar.
La città alta, con le antiche case in mattoni rossi del 1800, sembra un villaggio rimasto fermo nel tempo passato. I venditori di carbone salgono le strade e le gradinate con i sacchi sulle spalle, fissati a un asse di bambù. Incontro ben due turisti, credo gli unici in tutta la città, eppure il piccolo borgo invita a percorrerlo con calma e a goderne gli angoli romantici.
La cattedrale di Ambozontany, che domina la città, ricorda che Fianarantsoa è ancora oggi il più importante centro cattolico, con numerosissimi istituti religiosi. Do un saluto al noviziato intercongregazionale femminile che raccoglie una ottantina di novizie di vari istituti, visito il monastero trappista circondato da un grande bosco, il centro di teologia dove studiano seminaristi di varie diocesi e di una decina di congregazioni, lo studentato degli Oblati, la loro parrocchia in una delle zone più povere della città... Mi pare che il nome della città, Fianarantsoa, sia adatto; esso significa scuola dove si apprende il bene o la sapienza.
Per gli studi che riguardano la scienza (compresa quella teologica) la situazione è forse più complicata, a cominciare dall’università statale in crisi endemica. Visitando librerie e biblioteche scopro un altro tipo di povertà, quella culturale, di cui la scarsità di libri e di riviste è un segno evidente. Potrà mai questa gioventù essere competitiva e entrare nel circuito internazionale? Ma chissà che non sia vero il proverbio malgascio: “Gli uomini sono come il riso che si prende dalla pentola per versarlo nel piatto: che è sotto passa sopra”.

lunedì 14 gennaio 2013

Da Antananarivo a Fianarantsoa: un mondo ancestrale

Inizio ad attraversare Antananarivo con l’aurora della fresca estate. La città inizia a svegliarsi. È l’ora dei carri trainati dai buoi, la cui circolazione è interdetta durante il giorno. Ai crocicchi si squartano i maiali e i piccoli macellai di strada ne comprano i pezzi che rivenderanno sui marciapiedi. Dai forni uomini e donne escono con sulla testa ceste ricolme di baghette per la vendita agli angoli delle strade. Quando giungo sul fiume spunta il sole dorando l’orizzonte. A mano a mano che procedo si spargono al bordi sterrati delle vie le verdure degli ortolani e la città-mercato si rianima velocemente. Per il 35% dei malgasci anche oggi sarà una lotta per riuscire a conquistare la propria “apoca” di riso (il riso, come i fagioli, la pasta, non si vende a chili, ma riempiendo la lattina di latte condensato della Nestlè, usata come unità di misura). La vita è ricominciato anche oggi. Mi si stringe il cuore vedendo quanto è stentata e misera. Ma basta scorgere un ragazzo e una ragazza che camminano tenendosi per mano, o due anziani sottobraccio perché torni la speranza.
Una volta attraversata la città procedo con padre Alfonso verso Fianarantsoa. La distanza è di solli 400 chilometri, ma impiegheremo tutta la giornata, ben undici ore. La strada è un sali scendi tra colline e montagne, senza mai un rettilineo. Da metà viaggio in poi il fondo strada si deteriora pietosamente. È la via principale per il sud, l’unica strada dalla capitale a Fianarantsoa, ma così stanno le cose; non vi sono autostrade in Madagascar.
I paesaggi compensano i disagi della strada. Le risaie a terrazza degradano lentamente nella ampia vallate, per poi salire ripide su per le montagne; si incuneano in ogni anfratto, si appropriano di ogni angolo libero da rocce. I villaggi si posano su ogni collina, serrando compatte le case, tutte uguali, del colore della terra, con tetti di paglia o di lamiera. Ruscelli, fiumi, laghetti, stagni, cascatelle. Pinete, foreste… Sembra uno scenario disegnato dalle fate.
A mano a mano che ci si allontana dalla capitale il traffico si assottiglia fin quasi a scomparire, tanto che alla fine del viaggio Fianarantsao mi appare come una città autarchica, capace di vivere da sola, con la sua agricoltura.
A metà strada Antsirabe, la città tessile e industriale, sempre secondo gli standard minimi della regione. Una città ariosa, piena di verde. La stazione ferroviaria è un gioiellino… peccato che la ferrovia non funzioni dal tempo della colonia francese. In città le auto sono molto poche, in compenso appaiono i pouss-pouss, così si chiamano risciò locali trainati da uomini che corrono veloci a piedi nudi. I carri con i buoi possono circolare tutto il giorno. Frotte di persone che si muovono a piedi in file interminabili ai margini della lunga strada che attraversa la cittadina.
Nelle risaie si alternano simultaneamente tutte le fasi del riso: vi sono donne che tolgono le erbacce, uomini che sarchiano con una specie di piccolo aratro tirato a mano, altri che raccolgono il riso a piccoli mannelli tagliandolo col falcetto… Sulle aie c’è chi batte il riso, sbattendo proprio i piccoli sul terreno, mentre le donne lo sollevano al vento… Altre donne lavano i panni nell’acqua delle risaie…
Vicino ad ogni villaggio i ragazzi, a gruppetti, tornano a casa da scuola. Centinaia e centinaia, scalzi, con una busta di plastica per il libro e il quaderno. Non andranno oltre le elementari. Quale futuro li aspetta, così lontani dal mondo, in casupole senza acqua corrente e senza luce? E pensare che il Madagascar è un paese ricco d’oro, minerali, pietre e legnami pregiati… il tutto a beneficio di una piccolissima minoranza.
Per tutta la giornata mi scorre sotto gli occhi un mondo ancestrale complesso, che lascia sospesi e una natura affascinante e che pure mostra i segni dello scempio perpetrato dagli uomini…

domenica 13 gennaio 2013

Nel quartiere di Itaosy per raccontarci la nostra storia

Ho vissuto questa mia prima settimana malgascia con 30 Oblati venuti dalle diverse missioni per il loro ritiro annuale. Siamo stati ospiti nella casa di incontri dei Carmelitani, ad Antananarivo, nel quartiere di Itaosy, dove città e campagna si compenetrano: fazzoletti di terra coltivati a mais, ciuffi di bananeti, pini, stagni, frotte di ragazzini della scuola cattolica, micro negozi con un bambino che vende un fascio di verdura, un uomo che ha un banco con interiora di animale originariamente biancastre ma ora completamente nere per le mosche che vi si sono posate sopra e che ogni tanto tenta inutilmente di scacciare… Una transumanza costante di uomini, donne bambini, volti bellissimi che ricordano l’Oriente e insieme l’Africa, in una amalgama di popoli che si sono succeduti a ondate sull’isola. Il canto dei galli e dei mille uccelli al mattino, l’abbaiare dei cani e il canto dei grilli a notte… E tutto incorniciato da un orizzonte di dolci colline, dal disegno delle palme di cocco, da casette disseminate alla rinfusa, immersi in un clima mite e un alternarsi subitaneo di cielo intensamente azzurro, cupo plumbeo, nubi bianchissime.
Gli Oblati mi raccontano delle loro missioni, mi danno le foto dei loro posti e della loro gente. Io parlo della nostra vocazione, “indubbiamente la più bella, perché la stessa di quella di Gesù”, come direbbe sant’Eugenio. A sera mostro a mia volta le mie foto e li porto in giro per il mondo a conoscere i luoghi d’origine degli Oblati e della loro missione nei diversi continenti. Abbiamo una storia comune da raccontarci, quella che lo Spirito ha disegnato per noi; abbiamo un passato meraviglioso a cui occorre sempre tornare per ritrovare l’ispirazione originaria; abbiamo un presente ricco di esperienze e di difficoltà; abbiamo dunque un grande futuro.
Al termine dell’adorazione ognuno mi è passato davanti, ad ognuno ho imposto le mani, ho invocato l’amore di Dio, l’unico amore che pure si manifesta per ciascuno in modo diverso. A cena la festa di Natale, preceduta dal perdono reciproco: ognuno ha spezzato con l’altro il pane del perdono e si è abbracciato. Inizia poi la sfida tra polacchi e malgasci con i canti di Natale. Naturalmente vincono i polacchi, sono imbattibile, ne hanno troppi. Infine i regali, a chiusura del tempo di Natale. Torneranno presto alla loro missione… uniti nello stesso lavoro, come dice la sapienza malgascia: “Il mondo è come una grande risaia: il lavoro porta i suoi frutti grazie all’impegno di tutti”.