“Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”: l’ultima parola richiama la prima
parola pronunciata da Gesù nell’atto di diventare uomo:
«entrando
nel mondo, Cristo dice:
Tu
non hai voluto né sacrificio né offerta,
un
corpo invece mi hai preparato.
Non
hai gradito
né
olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora
ho detto: "Ecco, io vengo
-
poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -
per
fare, o Dio, la tua volontà"» (Eb 10, 5-7).
Entrando
nel mondo egli affida la sua vita nelle mani del Padre, in completa
disponibilità, per compiere la grande missione: la redenzione del mondo,
portare la Trinità in terra e la terra nella Trinità, l’ut omnes.
In
quella prima parola si avverte la gioia e lo slancio dell’obbedienza al Padre: “Eccomi,
manda me!”. La sua opera sarà tutta una risposta al mandato ricevuto: lo sentiamo
proclamare parole di sapienza, lo vediamo compiere miracoli, lo sentiamo vicino
ai poveri e ai peccatori…
La
parola di Gesù che viene nel mondo è la stessa con cui anche Maria di Nazaret inizia
la sua avventura: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua
parola» (Lc 1, 38). Lo stesso entusiasmo (letteralmente, il Dio dentro!)
nello scoprirsi scelta dal Signore, il medesimo slancio nel dichiararsi
pienamente disponibile. C’è tutta la generosità della giovinezza.
È
la stessa parola che apre il cammino di ogni battezzato dietro a Gesù, nella
gioiosa proclamazione: «Ti seguirò dovunque andrai» (Lc 9, 57), pronto
ad una donazione totale e a una piena condivisione di vita e di destino: «Andiamo
anche noi a morire con lui…» (Gv 11, 16).
Gesù
sapeva che la realizzazione del progetto sarebbe tanta onerosa, aveva
profetizzato il rifiuto, la passione, la morte. Eppure all’ultimo momento, quando
si tratta di porre il gesto finale che dà compimento all’opera, rimane col
fiato sospeso, sembra sul punto di gettare la spugna: «Allontana da me questo
calice – dove “calice” sta proprio per “volontà di Dio” –… Lo spirito è pronto,
ma la carne è debole» (Mc 14, 36.38).
Lo
slancio iniziale, per Gesù, come per Maria, per il discepolo, è generosissimo,
senza il minimo ripensamento: “Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua
volontà”; “avvenga per me secondo la tua parola”; “ti seguirò ovunque andrai”… Ora
giunge il tempo di “forti grida e lacrime”, di imparare l’obbedienza (=
l’attuazione del progetto affidato) attraverso il patire (cf. Eb 5,
7-8).
Davanti
al profilarsi di un esito inatteso (previsto, ma non in maniera così drammatica
e attuale), Gesù «cominciò ad avere paura e smarrimento» (Mc 14, 33): ekthamneístai:
impietrito e sconcertato, come quando qualcosa di terribile accade improvviso davanti
agli occhi; è la paura: ademoneín: grande ansietà, angoscia davanti a
qualcosa di spaventoso. Lo confessa con sincerità: «Sono triste da morire» (Mc
14, 34). Fino a sudare con gocce dense come sangue, in un’agonia (= la
lotta estrema) che lo conduce alla morte. C’è bisogno che un angelo dal cielo
venga a rincuorarlo (cf. Lc 22, 43-44)!
Eppure
Gesù continua il suo cammino e rimane coerente con il progetto, anche se sembra
assurdo: «però non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu» (Mc 14,
36); «non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 39); «non la mia
volontà, ma la tua sia fatta» (Lc 22, 42); «Che posso dire? Padre,
salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!» (Gv 12, 27).
Egli
procede, fermo nella parola data, la prima parola: “Ecco, io vengo… per fare, o
Dio, la tua volontà”. La compie veramente, nonostante tutto.
La
prima e l’ultima parola coincidono. Tutta la sua vita è sottesa tra un
proposito di obbedienza e il pieno adempimento. Il punto più alto del compimento
è in quel grido, che sembra porsi all’antitesi di quella che era la missione:
rivelare Dio e mettere in comunione con lui, creare l’unità della famiglia umana.
L’annuncio della buona novella sembra contraddetto dal grido sulla croce (Dio
non risponde: sembra piuttosto una cattiva novella), la comunione dall’estremo
abbandono, la luce dalla tenebra, l’unità dalla divisione e dalla solitudine.
Sulla
croce Gesù si fa pienamente solidale con l’umanità, ne assume la fragilità e la
finitezza, la sofferenza e la morte, fino al peccato nella realtà più
sconcertante della perdita di Dio.
L’incarnazione
raggiunge il punto più basso (il più alto?): veramente in quel grido Gesù appare
un uomo come tutti, anzi meno di uomo, fino a condividere con tutti solitudine,
infermità, oscurità. È entrato negli angoli più oscuri della nostra vita perché
in ogni angoscia e dolore potessimo trovarlo presente, accanto a noi, fino a
prendere su di sé ogni negativo e lasciarsi, al suo posto, la sua divina
presenza.
Lasciamo
la parola a una persona, Chiara Lubich, che in quel grido di Gesù sulla croce ha
trovato il cuore del suo carisma dell’unità:
«Gesù che grida l’abbandono è la figura del muto: non sa più
parlare.
È la figura del cieco: non vede, del sordo: non sente.
È lo stanco che si lamenta.
Rasenta la disperazione.
È l’affamato d’unione con Dio.
È figura dell’illuso, del tradito, appare fallito.
È pauroso, timido, disorientato.
Gesù abbandonato è la tenebra, la malinconia, il contrasto,
la figura di tutto ciò che è strano, indefinibile, che sa di mostruoso, perché
un Dio che chiede aiuto!…
È il solo, il derelitto… Appare inutile, scartato, scioccato…».
E rivolgendosi direttamente a lui:
«Perché
avessimo la Luce, ti venne meno la vista.
Perché
avessimo l’unione, provasti la separazione dal Padre.
Perché
possedessimo la sapienza, ti facesti “ignoranza”.
Perché
ci rivestissimo dell’innocenza, ti facesti “peccato”.
Perché
Dio fosse in noi, lo provasti lontano da Te».
«Ecco,
io vengo per fare la tua volontà… Mediante quella volontà siamo stati
santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per
sempre» (Ebrei 10, 9-10)
Quell’offerta,
ha spiegato Benedetto XVI ai parroci e ai sacerdoti della diocesi di Roma, 11
febbraio 2010, fa capire «che le lacrime di Cristo, l’angoscia del Monte degli
Ulivi, il grido della Croce, tutta la sua sofferenza non sono una cosa accanto
alla sua grande missione. Proprio in questo modo Egli offre il sacrificio, fa
il sacerdote… questa è la realizzazione del suo sacerdozio, così porta
l’umanità a Dio, così si fa mediatore, così si fa sacerdote».
Sono
ben altre, lo abbiamo sentito, le ultime parole che Luca mette in bocca a Gesù,
parole di sereno affidamento: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».
Per Giovanni Gesù termina la vita con un solenne: «È compiuto». Nessuno dei due
accenna al dramma testimoniato da Marco e Matteo. Qual è stata veramente l’ultima
parola di Gesù?
Pur
con formulazioni diverse ogni evangelista conosce il dramma dell’abbandono e insieme
dell’affidamento al Padre. Quel grido finale, “Perché…?”, nasconde una consegna
di sé a Dio, nonostante egli sembri lontano, assente. Gesù si rivolge comunque
a lui, lo invoca, lo chiama: è una forma di fiducioso affidamento, gli dice: “Dio
mio”.
Il
grido riportato da Matteo e Marco coincide con l’affidamento e la consegna di
sé al Padre, come in Luca; coincide con il pieno compimento del mandato
ricevuto nell’obbedienza più perfetta e nella sovrabbondante fecondità, come in
Giovanni.