domenica 31 maggio 2015

Africa, popolo di festa



Come scrive Kapuscinski, “a parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste… L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere… È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa”. È altrettanto vero che vi sono dei tratti caratteristici comuni inconfondibili, che trovi in tanti paesi pur diversi dell’Africa, come lo jubilo acuto che esplode dalle donne quando non possono contenere la gioia o come la festa coinvolgente, l’ondeggiare al suo dei tam tam, la sospensione del tempo, l’accoglienza incondizionata...
Ieri ho ritrovato tutte queste componenti dell’anima africana nel quartiere “Congo”, e più particolarmente nella parrocchia di Saint Justin.

Dopo aver lasciato la strada principale il fuoristrada si arrampica a fatica su per una pista sassosa e sabbiosa che si infossa tra crete rosse e vegetazione folta. Lungo la pista, che serve anche da pubblica discarica, casupole, banchi per il solito microscopico commercio, file di panni a stendere, ragazzini che si riconcorrono. La miseria esplode, ma in una natura che esplode anch’essa e che quasi l’avvolge materna e la rende vivibile. Dalla pista si diramano sentieri che condurranno a tante altre casupole, baracche, costruzioni ingegnose con i materiali più vari, e vi saranno altre donne che si pettinano tra loro i cappelli in treccine dalle architetture fantasiose, e altri bambini che giocano con un fuscello, e altri uomini seduti sotto un albero…

Arriviamo finalmente alla chiesa, al sommo della collina. La pista si interrompe e i camminamenti continuano in mille direzioni. Da lassù lo sguardo spazia lontano, tra il verde di manghi, banani, palme che nascondono centinaia di minuscole casette. “Siamo ancora a Kinshasa?”, domando. Sì, siamo ancora a Kinshasa dai mille volti.
Ci attende padre Jean Bedel, con un sorriso smagliante, ci introduce nella sua microscopica casa, ci mostra con orgoglio la bella chiesa e fuori, nel piazzale antistante, la grotta di Lourdes che sarà benedetta dal Vescovo. Non so trattenermi dal desiderio di fare subito due passi tra le casupole, lasciandomi attorniare da nuvoli di ragazzini, salutando gli anziani, chiedendo il prezzo della manioca e del mais alle mamme che hanno le bacinelle piene di farina.


Vorrei rimanere lì, ma è presto tempo di scendere a piedi fin sulla strada principale per attendere il Vescovo. Scendono i chierichetti con croce e candele, le varie associazioni con le vesti cucite della stessa stoffa con stampate immagini di madonne e di santi. Quando il vescovo arriva, tra canti e preghiere parte la processione, che si ingrossa sempre più a mano a man che sale verso la chiesa. Una volta giunti davanti alla grotta di Lourdes è il delirio. Fischietti, grida, canti: una gioia incontenibile.
Terminato il rito della benedizione della grotta la chiesa si riempie, mentre tante persone devono rimanere fuori sul piazzale. La messa, in lingala, è una festa nella festa. Le “gioiose”, bambine attillate come delle principesse, con guanti e calzini bianchi, danzano davanti all’altare. I canti sono coinvolgenti. Il dialogo tra il vescovo e il popolo costante (si merita davvero la capra che gli viene portata come regalo durante la messa). La partecipazione totale. Il tempo… si ferma. È un continuum, che si prolunga nella cena comune, a casa di montone. Chissà che impressione faranno loro le nostre liturgie quando emigrano nella nostra Europa… Qualcuno insinua che queste partecipazioni massicce alla chiesa siano espressione di una religiosità molto esteriore, rituale, senza interiorità. Può essere. Tuttavia la preghiera mi sembra profondamente sincera.
Gli africani, anche i più poveri come in questo quartiere poverissimo, hanno sempre un vestito bello per la festa, e tutti sono vestiti a festa. La povertà è sparita in un baleno.

Si è fatta ormai notte fonda. Solo allora, uscendo sulla pista, mi rendo conto che tutto il quartiere è senza elettricità. Anche negli altri quartieri la corrente va e viene senza un preciso programma, ma qui mancano proprio i fili. Per la chiesa c’è il generatore elettrico. Prima di ripartire mi attende un gruppo di giovani e ragazzotti. Hanno già smesso i vestiti di festa per i soliti cenci. Mi raccontano di loro, dell’assoluta mancanza di lavoro. “Ma come vivete?”. La risposta è sempre la stessa: “Ci arrangiamo”. Vuol dire, così mi raccontano, che partono la mattina verso quartieri meno poveri, a zonzo, nella speranza che qualcuno li chiami a pulire la casa, dia loro una camicia da lavare o da lavare, un pacco da trasportare…
La festa se n’è già andata. È tornata la dura ferialità.
Sulla strada del ritorno occhieggiano silenziosi rari lumini a petrolio sulle bancherelle addormentate.

Saint Justin, la baraccopoli con grotta di Lourdes



Dopo le notti folli, con musica a tutto volume, il quartiere al mattino è silenzioso e tranquillo. Gli spazzini puliscono marciapiedi e strade con una precisione maniacale. Per la verità hanno poco da raccogliere e procedono con una carriola o un mini carretto capaci di contenere tutti i rifiuti del circondario. Distesi sotto le auto, meccanici improvvisati cercano di far sopravvivere macchine che sarebbero dovute morire già da tempo. Quelle già morte si spolpano lentamente ai margini della strada, senza che gli spazzini possano caricarle sulle loro carriole. Barbieri e parrucchiere, anche quando hanno una stanzetta con gli attrezzi, preferiscono lavorare sulla strada, alla brezza del mattino. Sotto gli ombrelloni colorati mille negozietti sono già aperti, con poche cose. Il gelataio vaga con il suo carrettino e l'unico tipo di gelato rosa. Così, nella grande calma del mattino di sabato, ricomincia la vita.


Nel primo pomeriggio cambio di scena. Sono in uno dei quartieri periferici più poveri della città, chiamato “Congo”. In questi mesi le famiglie hanno portato una pietra con su scritto il loro nome così da costruire una grotta di Lourdes, oggi inaugurata dal vescovo.
La baraccopoli faceva parte di una parrocchia oblata, ma le persone volevano una chiesa e una parrocchia tutta per loro. “Potete sostenere una parrocchia?”, chiedevano gli Oblati. La risposta era affermativa, ma gli Oblati sapevano bene che non avrebbero potuto vivere con l’aiuto di gente che ha poco o niente per vivere. D’altra parte anche gli Oblati devono sopravvivere. Come le altre persone non hanno una tessera sanitaria. Quando una persona si ammala deve provvedere tutto a sue spese, compresa l’eventuale degenza in ospedale. La pensione è altrettanto inesistente. In più dietro ogni Oblato c’è una grande famiglia, in genere poverissima, che si affida a questo suo membro che ha raggiunto un grado sociale alto e alla quale in modo egli deve provvedere.
Due anni fa l’assemblea provinciale si è interrogata, ed è giunta alla conclusione: Se non apriamo una zona come questa che razza di missionari siamo? Uno dei padri, da poco laureato in scienze delle comunicazioni e impiegato in questo ambito nella Conferenza episcopale, si è presentato subito come volontario, ha lasciato tutto e con un altro Oblato ha dato vita alla nuova parrocchia.
A domani il racconto di questa straordinaria giornata alla parrocchia di san Giustino…


venerdì 29 maggio 2015

Quanti mondi in un mondo




Il lavoro con i rettori delle nostre università e Istituti superiori ha raggiunto il suo scopo. Preparare persone per la società e per la Chiesa appare sempre più una componente essenziale della nostra missione. È un compito non facile, che richieste molte risorse umane, finanziarie, organizzative, ma ognuno lavora con convinzione e con passione.

Basta mettere il naso fuori casa e mi trovo attorniato da un mondo sempre nuovo. Passano giovani che battono tra di loro due bottigliette di vetro: è il segnale che li annuncia come esperti in manicure e pedicure. Altri battono due legni: sono lustrascarpe (immagino avranno molto da fare con strada così polverose e sabbiose).

Se camminando lungo la strada leggo i nomi dei negozi, scritti sui muri a forte tinte, recito una litania infinita: Gloria di Dio, Divina provvidenza, Le sementi di Dio, Gesù Gesù... Si confondono espressioni di vera pietà e ciarlatanerie con profeti e veggenti ad ogni passo.

Si confondono miserabili straccioni e uomini e donne dai volti regali, carrette della fame e fuori strada di lusso, lotta disperata per la sopravvivenza e corruzione arrogante. Quanti mondi in un mondo, tutti amati da Dio.


giovedì 28 maggio 2015

Kinshasa, due passi nel quartiere


Due passi nel quartiere. Mi fermo a parlare con due sarti che hanno il loro atelier sul marciapiede. Al muro sono attaccate stampe con modelli di vestiti. Cuciono per tutti. Naturalmente i clienti più numerosi sono le donne. Le stoffe sono stampata con i soliti colori sgargianti.
All’incrocio della strada il traffico, di per sé relativamente leggero, diventa caotico, sia perché il centro c’è una consistente pozza d’acqua, sia perché la pavimentazione è molto sconnessa, sia perché non c’è semaforo. I semafori non esistono a Kinshasa, è una meraviglia. Ci si muove a piedi, per lavoro o per inerzia. Non mancano i pulmini privati, sgangherati , che fanno servizio da un capo all’altro della città.
Disseminati ovunque, lungo la strada, gli uomini sono seduti per terra o su di una sedia, all’ombra di un albero o di una tettoia. Parlano tra di loro o guardano semplicemente. Gesticolano o se ne stanno completamente immobili. La maggior parte fanno parte della metà dei 10 milioni di abitanti di Kinshasa: disoccupati. Alcuni sono le sentinelle che fanno la guardia alla casa. Non esistono le aperture automatiche dei cancelli: ogni cancello ha una guardia, o dentro o fuori, basta bussare e il cancello si apre.

Basta un saluto che il cerchio si apre e c’è subito un posto per me. Strette di mano, scambio di nomi e di provenienza. A Roma sarebbe semplicemente impossibile:
Come faranno tutte queste persone a mangiare almeno una volta al giorno? In effetti non tutti possono permetterselo. All’ora di cena qualcuno fa visita ad un amico o a un parente più fortunato che, se sta mangiando, condivide il pasto. E la moglie e i figli? La moglie si dà da fare dalla mattina alla sera, di industria nel commercio minimo, le basta una bacinella sulla testa con qualcosa da vendere, oppure lavora un po’ di terra, cosa che non possono fare gli uomini. I figli hanno la madre, o una zia, o uno zio, o un cugino… Gli uomini che invece di stare seduti si aggirano per strada sono quelli in cerca di lavoro, uno qualsiasi, anche di poche ore, per pochi spiccioli.
Sulla soglia del recinto della chiesa conosco Apollinaire, il guardiano. Lavora qui cinque giorni la settimana, poi rientra al suo villaggio, fuori Kinshasa. La vita in città è troppo cara. A casa la moglie fa quel che può per dare da mangiare ai figli. Tutti gli uomini del villaggio vengono a lavorare a Kinshasa, e tutte le donne portano il peso della famiglia. Apollinaire mi parla di un mondo di miseria, con il sorriso sulle labbra. Lavora come guardiano da 15 anni.
Attorno al santuarietto della Madonna una donna sistema delle sedie di plastica. Presto le persone verranno per il rosario che nel mese di maggio si dice ogni sera tutti insieme.


mercoledì 27 maggio 2015

Kinshasa: risveglio a ritmo di tamburi


A ritmo di tamburi sento cantare a cori alterni voci maschili e femminili, con moduli ripetitivi. È una scuola, mi dico. Ma sono ancora le sei del mattino, troppo presto. I canti vengono dalla chiesa accanto. Non mi ero ancor reso conto che appena dietro il muro di cinta della casa degli Oblati c’è la loro parrocchia. Vado in chiesa. È piena. Giorno feriale. Al termine le persone escono cantando fino al piccolo santuario della Madonna dei poveri, all’interno del recinto della parrocchia. È il mese di maggio e insieme rendono omaggio alla Madre.

Terminata la colazione, subito prima di riprendere i nostri lavori, torno un attimo in chiesa. Adesso trovo una trentina di donne. Si alzano in piedi una dopo l’altra, prendono la parola, mentre le altre esprimono gesti o gridolini di assenso. Dalle parole francesi che inframmezzano la loro lingua capisco che stanno condividendo le loro esperienze o particolari intenzioni di preghiera. Una di loro dirige il gruppo, dà la parola, riprendere alcune parole del Vangelo. Fuori, attorno al piccolo santuario, sono rimaste una decina di donne che pregano in forma spontanea.
Mi sembra di essere in un altro mondo. Come mai tanta religiosità in un normalissimo quartiere polveroso, con i barbieri che fanno capelli e barbe lungo il marciapiede, i negozietti sulla strada, i bambini che vanno a scuola con la divisa, la gente che si sposta a piedi…?
“Voi siete nel XXI secolo – risponde p. Anaclet alla mia meraviglia nel vedere in un giorno feriale tanta presenza alla chiesa – noi siamo ancora al tempo della cristianità medievale. La religiosità è nel sangue. Come si può vivere senza andare alla chiesa, senza pregare?”
In ognuna delle stradine sabbiose che si diramano dalle arterie principali vi è una delle centinaia di Chiesa evangelicali, dove le persone si radunano quotidianamente per cantare e pregare. Anche le nostre parrocchie sono divise in tante piccole “comunità ecclesiali viventi”, che si incontrano regolarmente nelle case per condividere insieme il cammino di fede.
“Ci sono già i primi segni della secolarizzazione – continua p. Anaclet –, ma il senso religioso è ancora molto forte”.
 “Noi cattolici siamo tutti molto religiosi”. Sentendomi parlare di religione un signore alto e grosso si è avvicinato e si presenta in maniera affabile come dottor Guy. Sembra il gigante buono. “Siamo molto religiosi. Anche nelle altre chiese qui attorno, alla massa del mattino partecipano molte persone. Abbiamo tanti problemi, tante difficoltà. Ma nessuno più toglierci la religione”.
Intanto, silenzioso, un nuovo mondo religioso è entrato anche in Congo, quello musulmano. Vedo passare parecchie bambine che vanno a scuola indossando il velo. Con la religione purtroppo entra il fondamentalismo jihaidista. È notizia di oggi che i vescovi della regione di Buvaku denuncino le infiltrazioni militari dei movimenti musulmani, il silenzio di tanti cristiani spariti, il rapimento di un vescovo.


martedì 26 maggio 2015

Il Congo ci accoglie con la festa


L’ottavo incontro dell’esecutivo dell’Associazione oblati per gli studi superiori (Canada, Stati Uniti, Filippine, Sud Africa, Congo, Polonia) quest’anno è ospitato dall’Istituto teologico sant’Eugenio de Mazenod a Kinshasa. L’accoglienza per la sessione inaugurale è solenne come si conviene in Africa. Tra le autorità spicca l’inviato speciale del Ministro della pubblica istruzione.
Dopo i saluti, le presentazioni, i canti della corale, tocca a me dare la prolusione sulle origini dei Missionari di Provenza di cui ci si appresta a celebrare i 200 anni di fondazione.
Poi le danze. Un gruppo tradizionale si esibisce con ritmi vertiginosi. È proprio una festa. Mio malgrado vengo coinvolto…


Il provinciale, p. Abel, fa gli onori di casa e ci racconta le origini degli Oblati in Congo, venuti nel lontano 1931. Oggi gli Oblati sono 159, tutti congolesi. Alcuni sono già partii missionari per Cameroun, Kenya, Namibia, Natal, Sud Africa, Zambia, Senegal, Sahara, Francia, Belgio, Italia, USA, Canada, Anghilterr, Paraguay e Venezuela.


lunedì 25 maggio 2015

I deserti nel cuore dell’Africa: capolavoro del Creatore



Basta un piede fuori del portellone dell’aereo ed eccomi assaltato da un botto di intensissimo caldo umido. È il primo impatto con l’Africa equatoriale. Lo sai che è lì che ti aspetta, ma è sempre nuovo.

Quando venni per la seconda volta in Congo, una ventina d’anni fa, l’arrivo a Kinshasa fu un trauma terribile. Appena sceso dall’aereo fui circondato da un nuvolo di persone che mi strapparono di mano il passaporto, la borsa, mentre riuscii a trattenere a stento la tessera delle vaccinazioni. Condotto in un ufficio della polizia subii un interrogatorio senza sosta. Poi di nuovo l’assalto di mille persone che niente avevano a che fare con il settore interno dell’aeroporto.


Questa volta tutto diverso. Mi accoglie una delegazione che facilita il controllo dei documenti, il ritiro dei bagagli, mi conduce nella sala delle personalità dove gli Oblati congolesi mi attendono…
È il meglio che ci si possa aspettare dopo un lungo viaggio.
Giorno di Pentecoste, quarantesimo anniversario dell’ordinazione: non posso mancare di celebrare la messa proprio oggi. Così inizio la giornata alle 3 del mattino, per una Eucaristia solitaria, ma sempre universale, cielo e terra presentissimi.


Scalo a Istanbul. So ormai dove posso assaggio gratuitamente i loqum dai molti sapori esposti nei negozi dell’aeroporto. Immancabile impatto con il mondo musulmano, soprattutto con frotte di uomini e donne vestiti in bianco in viaggio per il pellegrinaggio alla Mecca, pronti a stendere un tappeto ad ogni angolo per prostrarsi in preghiera.
Di nuovo in volo. Sotto, per tre ore, il deserto dell’Egitto e del Sudan si distende in sempre nuovi disegni e fantasiosi arabeschi. È la prima volta che sorvolo questa parte della terra. Resto incantato dalle indefinibili variazioni di gialli, ruggine, rossastri, marroni, dalle distese piatte, increspate, rocciose, sabbiose, dalle catene di montagne, dalle sagome di fiumi di sabbia ramificati capillarmente, come vene della terra. Uno spettacolo da far trattenere il viso incollato all’oblò e il fiato sospeso.
Gradatamente i colori cambiano con il lento passaggio a savane e infine alla foresta tropicale, fin quando lo scendere della sera incupisce la foresta equatoriale. Il cielo intanto si ammanta di nubi dalle più impensate fogge e dai colori vivaci e poi tenui, e la notte amalgama i paesaggi nel suo manto nero.
Quant’è bella la terra e che artista fantasioso il Creatore…


domenica 24 maggio 2015

Kinshasa


Le foto di 30 anni fa
Trent’anni fa venni per la prima volta in Congo, allora Zaire.
All’aeroporto di Fiumicino incontrai Herder Camada. Parlai un po’ con lui, lo aiutai a portare i bagagli, gli disse la mia ammirazione e la mia stima. E lui: “Quando ti lodano mi dispiace, vuol dire che non sono ancora trasparente, perché… gli uomini vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre”.
Il 21 dicembre 1986 scrivevo da Kinshasa le prime impressioni: “Oggi, domenica, la cappella era piena di gente. I canti sono bellissimo, ritmati con i tamburi e il battito delle mani. La polifonia ce l’hanno nel sangue. Tutta la gente canta con gli scolatici che, per l’occasione, hanno la loro bella veste bianca. Non si può non restare incantati davanti ad una liturgia così viva, così partecipata. Ho confessato una decina di uomini. Mi ha impressionato ascoltare la supplica accorata di questa gente che chiede il perdono e poter parlare della misericordia e dell’amore di Dio”.

Lo stesso giorno uno sguardo sulla città: “Kinshasa, per uno come me che per la prima volta mette piede in una città del terzo mondo, è una visione impressionante, sconvolgente e affascinante nello stesso tempo. Tutti i nostri criteri di città qui vanno in frantumo. 3 milioni di abitanti sono nascosti nella foresta. Non ci sono palazzi, se si eccettua quelli lungo la grande via commerciale. Sono tutte villette, case, casette arrangiate, baracche affogate nel verde dei bananeti, delle palme, dei campi coltivati a mais, arachidi, manioca. Per le strade piene di buche si va all’arrembaggio: camion stracarichi di gente, pulmini che scoppiano da tutti i lati di robe e di persone… Bancarelle ad ogni angolo, polvere, negozietti, immondizie, folla in continua transumanza… è uno spettacolo unico che mi lascia col fiato sospeso”
Ed ora eccomi di nuovo qua, per questa nuova avventura congolese...

sabato 23 maggio 2015

Tre padri per il mio sacerdozio




Pentecoste 1975: 40 anni fa la mia ordinazione.
Tre i padri, ora il cielo, del mio sacerdozio:

Pietro Fiordelli, il vescovo di Prato, che mi ha ordinato. Quando aveva occasione di presentarmi diceva: “Questo è il mio religioso diocesano”;

Marcello Zago, che mi ha rivestito con stola e casula;

Il babbo Leonello, che mi scriveva: “Mi piace raccomandarti alla Madonna, che ti guardi come suo figlio”.

Che continuino ad essermi accanto. 

venerdì 22 maggio 2015

Ragazze di ieri e di oggi

Sulle scogliere della Provenza ho fotografato una ragazza perché mi ha ricordato la pittura di Filippo Polizzi, “La Fanciulla sulla roccia a Sorrento” (1871). Da quella pittura sono passati 150 anni. Che differenza!
Le due ragazze potrebbero essere le stesse, distese ambedue sulla roccia.
Una guarda lontano, il mare: ha l’orizzonte davanti a sé, e sogna.
L’altra guarda a un palmo dal naso, non ha tempo per guardare il mare, deve leggere wozap: l’orizzonte si è ripiegato su se stesso.
Forse sono più vicine di quanto non sembra:
entrambe sono fuori del mondo che le circonda, in cerca di un altro mondo.
Chissà delle due chi è più felice e chi delle due ha più futuro.

giovedì 21 maggio 2015

Il carisma di sant’Eugenio? Una storia meravigliosa


Bella e solenne la celebrazione della festa di sant’Eugenio, che ha raccolto attorno al suo cuore tutta la comunità e tanti amici. All’inizio, come annunciato ieri, la benedizione dell’antico reliquiario che conteneva il cuore del Fondatore.

A sera cambio di scena. Vado nella chiesa di san Nicola ai Prefetti, nel cuore di Roma, e trovo la piccola comunità oblata in adorazione con poche persone: intensità di preghiera inversamente proporzionale alla minuscola presenza; un altro volto bello della realtà oblata sparsa nel mondo..

Quando mi viene chiesto: «Qual è il vostro carisma?», non posso fare a meno di raccontare una storia.
La storia di un giovane, Eugenio de Mazenod, che sperimenta in sé l’amore misericordioso di Dio, manifestatosi in Cristo Crocifisso, il Salvatore. Da lui redento si sente chiamato a divenire, in lui e con lui, strumento di redenzione: cooperatore di Cristo Salvatore. Alla luce di questo mistero, con gli occhi nuovi della fede, con gli occhi stessi del Salvatore perché con lui identificato, guarda alla Chiesa e la riconosce come la Sposa di Cristo, frutto del suo martirio. Vede il suo stato di abbandono, sente il grido di lei che chiama a gran voce i suoi figli e si dichiara pronto a rispondere. È mosso a compassione alla vista dei poveri, per i quali Cristo ha dato il suo sangue, e decide di dedicare ad essi tutta la sua vita nel sacerdozio, per far conoscere loro, mediante il ministero dell’evangelizzazione, chi è Cristo, così da aiutarli a prendere coscienza della loro dignità di figli e figlie di Dio. 
Unisce a sé altri sacerdoti e poi dei fratelli laici, con i quali sceglie di vivere i consigli evangelici, sull’esempio degli Apostoli, per attuare con radicalità e pienezza la vocazione cristiana alla santità e per lanciarsi insieme nel ministero dell’evangelizzazione di tutto l’uomo, di tutti gli uomini, specialmente dei più poveri e dei più abbandonati. Scopre gradatamente la presenza di Maria nella sua vita e nel suo ministero. Si riconosce strumento del suo amore di misericordia per gli uomini e si sente chiamato a portare a lei, Madre di Misericordia, i figli di Dio dispersi. Con i suoi fratelli inizia così a dirigersi verso coloro che più difficilmente sono raggiunti dalla pastorale ordinaria della Chiesa, dove altri non vogliono o non possono andare, con uno stile di evangelizzazione audace, d’avanguardia, capace di aprire vie nuove, nelle quali impegnarsi fino all’estremo, senza lasciare nulla di intentato. Contribuisce così, in comunione con tutte le altre vocazioni presenti nella Chiesa, al disegno di Dio: radunare uomini e donne nella grande famiglia di Dio, condurre l’umanità verso l’unità chiesta da Gesù al Padre, così da giungere ad essere tutti uno.
È un’esperienza che anch’io cerco di condividere.


mercoledì 20 maggio 2015

Festa di sant’Eugenio: un cuore grande come il mondo


Nei lavori di risistemazione del sottosuolo della casa generalizia è spuntato fuori un cumulo di marmi. C’è voluto un po’ di tempo per renderci conto che si trattava dei componenti di un monumento costruito nel 1908 nell’antico scolasticato oblata di via Vittorino da Feltre, vicino al Colosseo. Una volta lasciata la casa, nel 1961, il monumento fu smembrato e i marmi portati nello scantinato della nuova casa di via Aurelia, dove sono rimasti per 54 anni. Grazie all’interessamento di p. Roberto Sartor e alla perizia del muratore,  Ioan Bejan, è stato ricostruito nel parco di casa. Si tratta di un sacrario che conteneva la reliquia del cuore di sant’Eugenio de Mazenod.
Vi sono tre iscrizioni in latino che dicono:
- O Padre dolcissimo, Noi tuoi figli che, chiamati da ogni parte della terra, Roma ha nutrito, in segno di amore dedichiamo questo edicola al tuo cuore che fu esempio di carità. 12 giugno 1908.
- Ha consegnato “carità” con le sue ultime parole. Ha raccomandato fortemente la carità tra i suoi figli. Ha chiesto per testamento di custodire la carità.
- Infiammando di fuoco divino i suoi missionari apostolici per evangelizzare i poveri, ha mandato i suoi figli, chiamati dall’alto per una comunità stabile e perenne, come fiaccole nel mondo.

Quando fu inaugurato, l’8 giugno 1908, lunedì di Pentecoste, giorno nel quale sant’Eugenio lasciò il suo testamento spirituale: “Tra voi la carità…”, P. Baffie parlò con calore agli studenti Oblati di teologia che abitavano nella casa di via Vittorino da Feltre, dicendo che il cuore di sant’Eugenio è un cuore spalancato, “come un libro che vi basterà studiare per progredire nella scienza dei santi, che è la vera scienza, o meglio, la sola vera scienza”. Senza di essa, continuava p. Baffie, il vostro studio all’Università Gregoriana non servirà a niente.

Il 21 maggio 2015, festa di sant’Eugenio, il monumento ricostruito viene benedetto.
La reliquia del cuore di sant’Eugenio oggi è custodita nella cappella di casa nostra, in via Aurelia, in una teca sulle quali sono scritte le parole che sant’Eugenio pronunciò nel momento della sua morte, sintesi della sua vita e del suo insegnamento: «Tra voi la carità… la carità… la carità… e al di fuori, lo zelo per la salvezza delle anime». Il modo nel quale è stata conservata la reliquia sembra dire che al centro del carisma missionario di sant’Eugenio c’è il suo cuore, da cui tutto è partito e che tutto ha sostenuto e continua a sostiene.  
Il vangelo della messa della sua festa parla di Gesù che si commuove davanti alle folle senza pastore e che lo spinge ad annunciare la parola di Dio. È lo stesso amore che ha mosso sant’Eugenio e i suoi primi compagni alla vista della Chiesa abbandonata e delle popolazioni che non sapevano più “chi è Cristo”. Egli racconta che davanti a questa situazione “commota sunt corda”, il suo cuore e quello dei primi compagni si è commosso.
Davvero il cuore e l’amore sono la chiave di lettura di tutta la sua vita. Un cuore e un amore appassionati e intelligenti che gli fecero riconoscere i segni dei tempi e lo mossero a rispondervi senza risparmio di energie. Un cuore e un amore comunicativi e coinvolgenti, capaci di trascinare dietro a sé giovani pronti a condividerne gli ideali e le azioni. Un cuore e un amore che si rivolsero prima a quanti lo circondavano nella città natale, Aix-ex-Provence, poi nella regione circostante, poi in tutta la Francia, fino a quando, ormai incontenibile, si dilatarono nei continenti. Un amore che mostra in sant’Eugenio “un cuore grande quanto il mondo”.